Interview #38

Alek O.

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Alek O. (Buenos Aires, 1981) ha studiato presso il Politecnico di Milano (Milano). Ha esposto il suo lavoro presso Jeanine Hofland (Amsterdam), Meessen De Clercq (Bruxelles), Gallery Vela e Laura Bartlett (Londra), Royal Institute of Technology (Melbourne), Galleria Lia Rumma (Napoli),; Francesca Minini, O’ e La Triennale di Milano (Milano), Marianne Boesky Gallery (New York), Frutta e MACRO (Roma); Carl Kostyál (Stoccolma), Castello di Rivoli (Torino), Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia), MOSTYN (Wales).

Come e quando sei arrivata a Milano?

Sono arrivata nel 2001, per studiare al Politecnico.

Nel 2009 hai partecipato a As you enter the exhibition, you consider this a group show by an artist you don’t know by the name of Mr. Rossi, una collettiva all’ex-fabbrica Minerva. Com’è stata quest’esperienza, e come ha influito sul tuo lavoro?

In realtà più che partecipare, è una mostra che ho organizzato insieme agli altri artisti… Erano passati due anni da una mostra simile, si chiamava A Certain Ratio, nata dopo un’estate passata a Milano con Charlie Lioce, Matteo Rubbi, Mauro Vignando, Santo Tolone e Matteo Mascheroni… È stata un’esperienza entusiasmante. Così pensammo di andare avanti a lavorare in questo modo: semplicemente organizzando una mostra per il piacere di lavorare insieme ad altri artisti. Da allora, a scadenze irregolari, lavoro su questo tipo di progetti.

A partire da questa mostra, hai collaborato più volte con lo stesso gruppo di artisti nel corso degli anni: non vi siete mai affermati come collettivo, eppure la sinergia non si è mai persa. Qual è il denominatore comune?

Non c’è mai stata l’intenzione di lavorare come collettivo, con un nome e con un’identità definita. Siamo tutti artisti con percorsi molto diversi, e credo che la forza stia proprio in questo. Lavoriamo insieme su alcuni progetti specifici, a partire dalle nostre affinità.

ombrelli, vetri; una volta completata la raccolta procedi in un assemblaggio geometrico per categorie, che segue una classificazione quasi tassonomica. Questo esercizio di composizione nasce come ricerca estetica o lo è diventato nel corso della pratica?

Prima c’è il materiale, il suo fascino… O meglio, il fascino che esercita su di me. Poi lo trasformo in modo che abbia un valore anche agli occhi di qualcun altro. In quel passaggio c’è un’attenzione per la forma. Questa diventa il medium perché questo passaggio sia efficace.

In ogni caso si tratta di un’astrazione del quotidiano, in cui il confine tra il familiare e l’irriconoscibile è molto sottile. A cosa mira quest’ambiguità?

Spero che questa piccola distanza, tra ciò che uno vede in un primo momento – una figura geometrica riconducibile all’immaginario dell’arte – e la percezione del materiale ordinario che la compone, creino un dubbio, un movimento tra quel che si vede e quel che si suppone… Una vibrazione fra A e B che generi una tensione in chi guarda il lavoro.

Hai anche utilizzato oggetti personali, scomponendoli e ricomponendoli sotto altre spoglie: hai detto che per te è un modo per non eliminare, ma al contrario aggiungere una storia ad oggetti di appeal comune, apparentemente privi di connotazioni personali. Una sorta di rituale in cui carichi elementi anonimi di significati aggiunti. Si può definire un parallelo con il dualismo pubblico/privato?

A volte la scelta di usare degli oggetti personali è data dalla voglia di tenerli in ‘vita’ un po’ più a lungo. È un modo per dargli una seconda chance quando sono pronta a scartarli. Perciò li trasformo. Siamo ormai abituati al privato che diventa pubblico, in tempo reale. Siamo immersi in un voyeurismo continuo. Non è lo svelare il privato tout-court quello che mi interessa. In quel caso sarei probabilmente pronta a fare dei ready-made. Il mio sforzo è nel rendere condiviso qualcosa che fino a quel momento era ‘pubblicamente’ poco interessante.

E cosa ti ha portato alla reiterazione di un approccio così metodico?

È un mettere in ordine la realtà, come si sistema un armadio, o si fanno le pulizie: in modo intuitivo e logico.

Eppure in una serie ti sei concentrata anche sul concetto di interferenza, realizzando installazioni luminose in cui una delle lampadine viveva ‘fuori dal coro’.

L’ordine che riconosco nei miei lavori è spesso costellato da errori. Sono ordini imperfetti. In You Can Dance ho dato più spazio all’errore. Tre lampadine sono identiche quando le vedi spente. Ma due di loro si accendono con una luce calda, mentre la terza tende al blu.

In effetti l’estetica glitch si può osservare nelle trame dei tuoi ricami, nell’usura delle tapparelle o negli incastri imprecisi dei tessuti. È un caso o è un discorso che effettivamente ti interessa?

Come principio, cerco di limitare al massimo le imperfezioni. Ma non è possibile eliminarle. L’imperfezione è già all’origine nei materiali che uso, e anche nel modo di lavorare, vicino al fai da te. La presentazione deve essere impeccabile, ma il lavoro può essere pieno di incertezze.