Interview #12

Andrea Magnani

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Andrea Magnani (Faenza, 1983) ha studiato presso l’ISIA (Faenza). Ha esposto il suo lavoro presso Swing (Benevento); MAMbo e roBOt (Bologna); Palazzo delle Esposizioni (Faenza); Stanford Housing (Londra); Triennale, Il Crepaccio, Marsèlleria Permanent Exhibition, Mars e Viafarini (Milano); Marsèlleria Permanent Exhibition (New York); Pad. Regionale, 54° Biennale di Venezia (Reggio Emilia); T293, Operativa Arte Contemporanea, Fondazione Baruchello e Villa Farinacci (Roma); Italienska Kulturinstitutet (Stoccolma); Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia); Giorgio Galotti, PAV e Archivio di Stato (Torino).

Sistema S è stato il tuo primo lavoro come artista: si tratta di un lavoro esploso in molti elementi, che accavalla la tua ricerca artistica alla tua precedente attività come designer. Come si è verificata questa evoluzione, e come si intrecciano le due pratiche nel tuo lavoro, ancora oggi?

Probabilmente non ho mai operato una reale distinzione tra le due discipline ma, sicuramente a partire da quel lavoro mi sono trovato ad avere in mano una produzione non più spendibile nel contesto del design. Anche se tutta l’installazione ruota intorno a quello che di fatto è uno strumento, un vero e proprio oggetto utilizzabile per fare bolle di sapone, è stato per me un po’ come ripartire da zero. Per quanto se ne dica, almeno in Italia, il mondo dell’arte e quello del design sono ancora profondamente sconnessi. Raramente vedo designer alle mostre d’arte e viceversa, un peccato. Per quanto riguarda il mio lavoro oggi mi piace pensare che non ci sia nessuna discontinuità tra le due prassi, in un certo senso si compenetrano.

Hai detto che per te un’opera non è mai finita, ma che la consideri sempre aperta e processabile; da cosa deriva questo orientamento?

Agire diversamente mi sembra tremendamente innaturale, mi spaventa un po’. Credo che le opere, anche quelle pensate come sculture immutabili, agiscano attivamente mantenendo la propria pulsione immaginativa solo fino a quando altre, più aderenti, iniziano a bussare alla porta.

Il linguaggio codificato è un elemento ricorrente nella formalizzazione del tuo lavoro; cosa ti interessa di questa forma comunicativa?

Del linguaggio codificato mi piace la sua persistenza e il potenziale di sintesi immaginativo. Un mix in grado di agire come innesco per un proprio percorso di costruzione del senso. Nel lavoro, per le parti di testo, uso spesso un alfabeto che ho sviluppato qualche anno fa. Un po’ runico, un po’ alieno, mi piace che risvegli quella sensazione che si ha di fronte ad un artefatto trovato un po’ per caso, incollocabile. Come trovarsi di fronte ad una nuova ipotetica stele di Rosetta.

La parola scritta è un altro canale della tua attività, che recentemente hai avuto modo di esperire in vari progetti.

Fissare un concetto su una pagina mi lascia quasi sempre una sensazione agrodolce, mi sembra, in un certo senso di ucciderlo, di limitarne il potenziale. La parola scritta, immobile, irreversibile può avere però una formalizzazione astratta, collassante. Disegnata per aprirsi a quei momenti in cui, per un secondo ti fermi e alzando gli occhi sotto le palpebre, come per visualizzare il concetto, senti quanto ti sfugga o come rimbalzi in tutte le direzioni. Quello è proprio il punto, l’innesco.

Negli ultimi anni hai iniziato a traslare il tuo immaginario personale, legato a simbologia e rituali, in contesti reali, quotidiani; si può dire che il tuo lavoro sia quindi una pratica meta linguistica?

Non so se si possa definire meta linguistica ma, ad un certo punto, ho avuto la necessità di costruire una nuova cosmologia simbolica che sentivo più presente, meno astratta rispetto a quelle di derivazione tradizionale. I loghi e le identità aziendali che popolano le nostre città sono quindi per me dei veri e propri agenti del linguaggio in grado di far passare concetti, influenzare prassi e pensieri, mentre alcuni atteggiamenti, frutto di un lifestyle contemporaneo come il running o il confezionamento dell’acqua potabile, hanno in se tutti gli ingredienti individuabili anche nella ritualità magica tradizionale.

Nel 2014 hai creato Siliqoon, un’art label dedita alla creazione e alla curatela di arte contemporanea, che mette in dialogo artisti e le realtà produttive italiane. Da cosa è nata questa esigenza?

Siliqoon nasce dalla necessità di entrare in contatto con materiali o tecnologie generalmente di difficile accesso. Studiando design mi sono da subito avvicinato al topic della traduzione del progetto nella sua forma fisica, materiale. Entrando in contatto, per le mie produzioni, con alcune aziende artigianali ho capito quanto l’interlocutore in questa fase di traduzione possa svolgere un ruolo positivo anche in termini di conceptualizing. Man mano che il progetto cresce mi convinco di quanto sia enorme il potenziale produttivo inespresso che si libera proprio nel momento in cui le aziende sono disposte ad uscire dal seminato. Una relazione win-win che vorrei tornasse al centro del discorso come chiave di volta per produrre opere d’arte migliori.

In generale la tua attività si divide in azioni generative e introiettate, che si sono già tradotte più volte in progetti curatoriali.

L’attività curatoriale agisce per me come un canale. Indirizza e ordina un flusso di concetti in una sorta di direzione/gabbia interpretativa. Una pratica utile e pericolosa allo stesso tempo. In un contesto vaporoso può aiutare a distillare le idee alimentando il discorso con alcune tematiche piuttosto che altre. Diventa però dannosa quando la condensazione eccede producendo stagni.