Interview #44

Davide Savorani

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Davide Savorani (Faenza, 1977) ha studiato presso l’Istituto d’Arte per la Ceramica (Faenza), l’Accademia di Belle Arti (Ravenna) e la Mountain School of Art (Los Angeles). Ha esposto il suo lavoro presso Overgaden e Betty Nansen Teatret (Copenhagen); CAMH (Houston); ICA e FormContent (Londra); Artopia, Brown Project Space, CareOf, Tile Project Space e Marsèlleria (Milano); Santarcangelo Festival (Santarcangelo); Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino); Padiglione Spagna – 54° Biennale di Venezia (Venezia); Kunstraum (Vienna).

La tua formazione inizia a Faenza, tua città natale.

Inizia nel 1991, all’Istituto d’Arte per la ceramica. I metodi di insegnamento erano eccessivamente incentrati sulla tecnica e lasciavano poco spazio alla creatività e alla sperimentazione. Le ore passate a riprodurre “la palmetta persiana” mi hanno poi fatto capire che non sono dotato della pazienza necessaria per questo genere di attività. Quel tipo di tempistiche non mi eccitano.

Il tuo lavoro è pregno di riferimenti fiabeschi e folkloristici, spesso legati all’immaginario medievale.

Sono cresciuto a Isola, un paesino formato da una manciata di abitanti. Fino alla quarta elementare ho avuto due compagni di classe. Sono cresciuto nella campagna romagnola, dove le mie grandi orecchie di bambino mangiavano di tutto, dalle storie di guerra vissute dai nonni, alle leggende di paese, dalle favole ai fatti quotidiani, vissuti in coro da tutto il paese.

Frequentando l’Accademia di Ravenna hai poi iniziato ad avvicinarti al teatro. In che modo questo shift ha influenzato il tuo modo di approcciare lo spazio espositivo?

Mi sono avvicinato al cosiddetto teatro di ricerca grazie ad alcuni studenti che frequentavano l’ultimo anno dell’accademia. Tra di loro c’era una ragazza che lavorava con la Socìetas e fu lei a portarmi ad una delle ultime repliche dell’Amleto. Sul palco ho capito che era possibile dialogare con lo spazio, che la mia presenza, ogni presenza, innescava una dinamica. L’esperienza in teatro ha posto molte questioni, soprattutto sul rapporto tra contenuto e contenitore, sulla presunta passività di quest’ultimo. Domande che hanno poi messo in discussione il mio rapporto con le situazioni espositive verso cui ho iniziato a relazionarmi.

Hai poi detto che consideri corpi e oggetti non come opere installate, ma sempre come perfomer.

Sì, lo sono e forse non c’è molto da spiegare. Sono degli attanti, hanno un ruolo e una storia, contengono una dinamica intrinseca, un’azione in potenza, come una mela include già il vigore del morso, la pressione delle mani, il colpo della caduta. La loro presenza porta una temperatura ogni qualvolta si inseriscono o fuoriescono da un contesto, da un insieme, da uno spazio.

Tu stesso, attraverso il teatro, dici di aver imparato ad avere ‘flessibilità nel ruolo’: in che cosa si traduce nel tuo lavoro attuale?

Provo ad ascoltare. Per quanto mi riguarda, in teatro non puoi fare muro e respingere, ma all’opposto devi essere disponibile a ricevere, farti attraversare e rilasciare. Nel mio lavoro tutto ciò si è tradotto nel tentativo di ascoltare e rispondere alle situazioni in cui mi trovo ad agire, a non ancorare un’idea, ad essere aperti all’imprevisto e non sapere esattamente quale sarà il risultato.

Il disegno resta comunque il tuo primo canale.

Probabilmente è proprio la polifonia di racconti di cui si parlava prima ad avere favorito la mia forte immaginazione. Attraverso il disegno potevo quindi aprire la valvola e sfogare la pressione esercitata dalle storie che sviluppavo nella mia testa. Per me era un gioco, e passavo molto tempo su dei quadernoni, dove cristallizzavo i momenti topici di quelle storie, senza seguire una logica precisa. Verso la fine dei miei studi accademici ho poi riconsiderato quell’approccio e ho iniziato a produrre molti disegni in sequenza, degli storyboard incompleti, pieni di vuoti tra un episodio e l’altro.

La prima volta che ho visto i tuoi disegni stavi lavorando a Stressed Environment, personale con cui Marsèlleria Permanent Exhibition nel 2016 inaugurò la nuova sede. Su che cosa avevi sviluppato questa serie di lavori?

Sono partito rivolgendo l’attenzione ad uno stato d’animo, a quella che sembrava un’imbarazzante dichiarazione che stavo facendo in primis a me stesso: “sono annoiato”. Era un momento ‘particolare’, di grande solitudine interiore, grande deserto, grande richiesta da chi mi gravitava intorno, grandi nuvole. Sono partito dal punto più complesso, da me. E per osservare questo me ho sentito il bisogno di ascoltare gli altri, sconosciuti altri, lontani altri e altri annoiati. Avevo bisogno del buio virtuale, di quella densità e di quel volume che non puoi trovare altrove. Sono partito da uno stato che mi sembrava vuoto, mentre invece era pieno.

Che cosa pensi dell’offerta culturale di Milano?

Credo che Milano stia attraversando un momento interessante, anche conflittuale. C’è la puzza della speranza e l’odore, seppur lontano, del cambiamento. Il desiderio di aprire nuovi spazi, di non accontentarsi di quello che ci viene offerto, e non aspettare. Forse ci dimentichiamo che siamo dotati una voce ­e proprio per questo mi sto confrontando sempre di più con questo medium, soprattutto attraverso la canzone. In Italia, e non solo a Milano, trovo complicata la relazione tra gli attori di questo sistema. Sembra prevalere la tendenza a tenere per sé ciò che si è ‘guadagnato’ e a condividere solo lo stretto necessario. Invece dovremmo imparare a spalancare le porte, fare spazio, unire questo coro eterogeneo di voci ed energie per scuotere con maggiore vigore un sistema che tende all’inerzia.