Interview #63

Elena Radice

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Elena Radice (Milano, 1987) ha studiato all’Accademia di Brera (Milano).Il suo lavoro è stato esposto presso LINK Point (Brescia); Mont Saléve, Informatika e A gee in the fog (Ginevra); Les Urbains Festival (Losanna); Gaff, Sprint presso EVASTOMPERstudio, HOST Project, Kasanowa Kunsthalle e Viafarini (Milano).

Prima di frequentare la facoltà di Nuove tecnologie all’Accademia di Brera, ti sei laureata in Scultura all’Accademia di Urbino: cos’è rimasto di quell’approccio plastico alla materia, nel tuo lavoro?

Sono contraria alla suddivisione per medium nella formazione artistica italiana; ho studiato un anno a Ginevra nel Work.Master della HEAD e posso dirti con certezza che quello è un modello sensato: ognuno può utilizzare il medium che desidera, e può sperimentare molto di più; questo in fase di formazione è estremamente importante. Quando si studia si può essere radicalmente sperimentali, mentre un sistema vincolato a una sola area crea una specificità che ritengo inutile, aumenta solo ansie e manie di perfezionismo. Mi sono costruita una formazione ibrida per liberarmi il più possibile dal tecnicismo: il mio medium principale, nel non averne uno prediletto, è lo spazio. La compresenza in un luogo geografico con l’opera è fondamentale per l’esperienza estetica, la sua formalizzazione la rende reale, livello presente che si fonde con il mondo. È stupido pensare che un video o un suono non siano oggetti scultorei. L’ambiente è il ‘blocco di marmo’ da cui si toglie e a cui si aggiunge, si leviga e si lascia grezzo. Dove non c’è il vuoto in senso scientifico esiste un oggetto e ogni oggetto è scultura. Tutto è scultura, anche la pittura è scultura. Non ho mai smesso di fare scultura.

In che misura fai sì che una dimensione locale informi la tua pratica?

Direi che è il punto di partenza della mia pratica: le geografie per me sono fondamentali, l’ambiente in cui vivo mi influenza moltissimo, non posso che considerarlo nella sua interezza fenomenologica, in cui si inseriscono anche le relazioni. Lavorare in un luogo implica una dinamica di scambio da cui cerco di non sottrarmi, quello che imparo, acquisisco e scambio parte dal mio specifico punto geografico, lente che filtra tutto, input e output. Per questo investo così tanto tempo a pensare al luogo in cui voglio stare, a come deve essere la mia casa, a come vivo gli spostamenti e contatti e relazioni con chi non vive nel mio stesso posto.

Parlandone insieme, ho sempre avvertito che una certa attenzione ‘ecologica’, un’economia delle energie, detti molte tue scelte…

Rientra nella connessione con il luogo in cui sto e con l’idea di finzione. Se devo snaturarmi nello sforzo economico e fisico di realizzare qualcosa, non sto facendo la cosa giusta. Se devo snaturare un luogo men che meno. A questo proposito lancio un appello a tutti gli scultori: smettetela di usare la vetroresina. Resterà nella sua forma per sempre, il massimo che possiate fare è mandarla da un’altra parte, forse, l’unica cosa che ha senso fare di vetroresina, sono i mezzi di trasporto: solo quelli per viaggiare verso lo spazio.

In che momento sei passata da un sistema ‘monadico’ a uno che comprendesse la percezione, la presenza fisica di uno spettatore, nel tuo porti rispetto alla tua pratica?

Non ho mai avuto un approccio cinico alla produzione artistica: per me lo spettatore è sempre stato molto importante. (Considero cinico chi non pensa allo spettatore sottraendosi alla relazione.) Ho rischiato di perderlo di vista nel tentativo di studiare un po’ più a fondo i meccanismi dell”Artworld’, smettendo di essere un’osservatrice e sottraendomi alla dicotomia fruitore/creatore di esperienze estetiche. In quella fase della mia formazione ho incontrato il collettivo artistico-editoriale ESTAR(SER), di base a New York, e ho iniziato a collaborare con loro a pratiche performative di fruizione attentiva, ricalibrando completamente il centro, il senso. È un lavoro che procede da diversi anni, in cui ho coinvolto anche altre persone. Questa ricerca dialogica si è concretizzata nella tesi con cui ho concluso i miei studi, e prosegue organicamente nella mia ritrovata dicotomia creazione/fruizione.

In lavori come il banner di seta NonewhhiteFree Canon/Controversial Freedom  il ’sistema chiuso’ dell’algoritmo non è generato da te ma è adottato come regola con l’unico scopo di essere prevaricato, di trovare strategie per superarlo in modo tale da utilizzarlo per parlare di altro. In questo approccio non riesco a non leggere un aspetto ludico. Dell’algoritmo non mi sembra ti interessi l’aleatorietà quanto la sua possibilità generativa.

In tutti i casi mi sono divertita a ribaltare una struttura e utilizzarla in un altro modo. Non so bene che idea abbia avuto l’inventore del generatore di haiku o del synth basato sull’abbinamento delle lettere alle note musicali, ma ho provato abbinare questi mezzi generativi a contenuti continuamente vittima di studio, come i trending topic di Twitter, le cromie retromaniache di Instagram, le dinamiche di relazione durante un vernissage, i testi di un libro. Gli oggetti digitali sono complessi e stratificati, ma una volta compresi, possono essere liberamente utilizzati come ingredienti grezzi. Ora mi vengono in mente solo parallelismi tra gli ingredienti da cucina e gli oggetti digitali, e mi sono sempre detta che l’uso del marmo non è diverso dall’uso di un computer, ma credo ci sia un parallelismo più azzeccato con gli ingredienti che vengono usati per cucinare un piatto: a volte sono ipercomplessi ma nessuno pensa quanto pensiero e processo ci sono voluti per crearlo in quella forma nel momento in cui grattugia il grana, anche se sarebbe interessante, e forse farlo intuire è la differenza tra una massaia e una chef.