Interview #56

Enrico Boccioletti

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Enrico Boccioletti (Pesaro,1984) ha studiato presso l’Università degli Studi di Urbino (Urbino) e l’Accademia di Brera (Milano). Il suo lavoro è stato esposto presso Fabio Paris Art Gallery (Brescia); Material (Città del Messico); TESCO (Faenza); ONES (Firenze); #6PM (Milano e online); Fondazione Pastificio Cerere, Istituto Svizzero e Operativa (Roma); riss(e) (Varese); Point Centre for Contemporary Art (Nicosia); La Plage (Parigi); HORSEANDPONY (Berlino); ZKM (Karlsruhe); PAV (Torino); MAXXI (Roma); OGR,(Torino); Fondaco (Roma); Gossamer Fog (London).

L’uso del suono nella tua pratica è particolarmente rilevante; come ti ci sei avvicinato, e che tipo di sonorità ti interessano? In che modo inserisci il suono nel video? Vuoi menzionare alcuni set che hai fatto in cui ti sei particolarmente ‘mandato a vedere’?

Mi colpiscono tipologie e sonorità diverse e persino incoerenti tra loro. Credo che sia più l’attitudine che la timbrica in sé. A volte il suono è più intimo e diretto del visivo, e questo è interessante. Apprezzo l’eurodance, che accompagna tutto Angelo Azzurro, perché per me è fisica e mentale, ma non intellettuale. Non mi piace l’idea del ‘live concert’, la trovo una pantomima superflua nel 99% dei casi. C’è un 1% dove invece questa presenza fisica e temporale è necessaria e speciale.

Di recente hai deciso di lasciare il tuo lavoro da Mousse per dedicarti quasi esclusivamente alla tua pratica artistica.

Ci si abitua a tutto, e alcuni di noi sono più mimetici di altri. Il problema è questa tendenza alla professionalizzazione tout court: sempre pronti, interessanti, impegnati e sorridenti. La possibilità di sottrarsi a tutto questo è sia un lusso che una scelta. Sto lavorando al balance tra le due cose.

Sei forse la persona che più su Milano è riuscita a contagiare gli altri con il linguaggio. Meme, espressioni, linguaggio simbolico, forse tutto ciò si riassume nella bandiera Mega Positive che hai creato per T.A.M. con Andrea Magnani. Che cos’è essere mega positive? Perché è stato così contagioso e come pensi influisca la sociologia del linguaggio, e la tua posizione nel contesto delle persone incluse in PANORAMA?

Non lo so cosa sia essere ‘mega positive’ davvero! Per me e Andrea penso fosse una tendenza, al miglioramento interiore, e un’esigenza di sopravvivenza. È divertente, anche. Poi ho questa maledizione di apparire positive anche quando sono negative.

Siamo davanti alla Stazione Centrale, questa zona ha e assume sempre più rilievo. Perché?

Dalla Centrale arrivi a Milano, ti muovi a Milano e te ne vai da Milano. Mi sembra una benedizione abitare in una zona così.

Hai certamente avuto modo di collaborare con artisti che abitano a Milano. Vuoi menzionare qualcuno la cui pratica è particolarmente significativa per te? O con cui comunque c’è un legame che ritieni essere di contaminazione e crescita per la tua ricerca?

Faccio solo nomi per me molto importanti: Gianandrea Poletta, Andrea Magnani, Elena Radice, Alessandro di Pietro, Michele Gabriele, Dafne Boggeri, Andrea Romano e Mattia Capelletti. E poi Costanza Candeloro, Bianca Stoppani e Roberto Fassone, anche se non sono qui ora.

Sei sempre pieno di idee, energia, fresco, aperto al mondo. In cosa consiste il tuo nucleo propulsore? Dove trovi gli stimoli? Su che filoni ti stai orientando ultimamente e come si manifesteranno nei tuoi progetti futuri?

È buffo perché io mi trovo una persona piuttosto oscura, questo è sia una buona che una cattiva notizia. 🙂 È come dicevo appunto: ho questa maledizione di apparire positive anche quando sono negative, ma è anche colpa mia. Vorrei lavorare di meno e oziare di più.

Raccontaci dell’installazione che hai proposto a La Plage per Material Art Fair in Messico nel 2016. In particolare mi piacerebbe sapere come hai composto i video, da dove sono nati i tre avatar, e i processi per ottenere i vinili.

Il viaggio in Messico con La Plage è iniziato molto prima di partire per il Messico. Quando le ragazze (Francesca, Sini e Valentina) decisero di aprire uno spazio a Parigi, mi proposero di applicare con loro ad un progetto per Material, ancor prima di aver trovato uno spazio fisico a Parigi per organizzare la prima mostra. Si, è stato molto importante e intenso fin dall’inizio: l’attitudine, più che la destinazione. È un po’ complesso da spiegare, e andrebbe esperito l’insieme più che discusso, ma tutto parte da un forte desiderio di distensione e di fuga spirituale, che diventa un’urgenza di azione concreta. I materiali sono vari: suonerie di telefonini, sequenze girate ad hoc e trovate, campionamenti e registrazioni, passaggi su nastro, tanto editing, parti di scrittura, ritagli da varie letture, immagini scaricate e pezzi di altri testi di accompagnamento per mostre di altri.

Nel 2016 hai fatto una mostra da Gaff, qui a Milano con Costanza Candeloro, Elena Radice e Noemi Radice. Il lavoro presentato era una vecchia opera legata a un tuo momento forse più intimo di altri, un libro in cui sostanzialmente ti sei monitorato scientificamente per sbloccare alcuni fattori emotivi. Vorrei sapere se questa metodologia ha avuto un effetto benefico su di te e se hai pensato di applicare metodi analoghi in altre situazioni.

Si, è stato un invito di Costanza: lei doveva fare la mostra, e ha invitato Elena (che ha scelto di collaborare anche con Noemi, sua sorella) e me a partecipare. No, il lavoro di cui parli non ha avuto un effetto propriamente ‘benefico’, è come un diario: non serve a niente ma racconta qualcosa di te che pensavi di non sapere.