* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).
* Attualmente, Federico Chiari è di base a Torino.
Federico Chiari (Milano 1985) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha fondato l’etichetta techno hardcore Dancehole Records. I suoi ultimi lavori comprendono Ludwig (2018) e Monelle (2017) di Diego Marcon, What Time Is Love (2018) di Anna Franceschini, Ouroboros (2017) di Basma Alsharif, Calipso (2016) di Cleo Fariselli.
La tua pratica artistica è legata al suono, in particolare alla techno hardcore. Quando è nato quest’interesse, in quale contesto?
La mia scoperta dell’hardcore è avvenuta attorno al 2010, per sentito dire; dopodiché ho iniziato ad incuriosirmi e a scavare sempre di più. In quel periodo frequentavo, come tanti altri, le serate Hundebiss, che a Milano avevano convogliato tante persone attorno alla musica noise. Ciò che stava passando a Milano grazie ai ‘Simoni’ mi coinvolgeva, sia per quanto riguarda il suono che per l’estetica. Ma avvertivo che c’era una contraddizione, una forte distanza tra pubblico ed esecutore, nonostante una ricerca di spontaneismo. E per ciò che cercavo personalmente, si trattava di un problema: intuivo di stare cercando una forma in cui non ci fosse una separazione spettatore/spettacolo, dove tutto quanto fosse un’esperienza unica; cosa che poi ho in un certo senso trovato nel rave hardcore, o nello zikr ceceno, un’esperienza totalizzante.
Potresti darci alcuni esempi di esperienze totalizzanti in Italia?
Per me un riferimento forte in Italia è stato Carmelo Bene, nella sua forma di ‘teatro’ era alla ricerca del superamento dello spettacolo e del teatro stesso. E poi ovviamente il Number One a Brescia! È paradossale, certo, e non vedo similitudini fra le due cose, se non per il fatto che entrambe mi hanno fortemente attratto. Ma al Number One la musica folle, le droghe, il contesto straniante di discoteca di provincia, avevano generato, negli anni, una sorta di rituale, quello dell’ultimo disco: la famosa ‘piramide umana’ è una sorta di microstoria di rituali, che è forse quello che in fondo mi ha sempre interessato.
Come si è sviluppato il tuo percorso artistico?
Prima della folgorazione, come molti, facevo modeste sperimentazioni noise, una sorta di luogo comune all’epoca. Dall’interesse per l’hardcore, che poi ho convogliato in una tesi, sono partiti altri progetti attivi: l’etichetta Dancehole Records, con Diego Marcon; ho poi cominciato a fare djset, e a suonare anche nell’ambiente hardcore bresciano. Gran parte della mia attività è comunque rimasta legata al sonoro per film e video, all’ambiente artistico e alla collaborazione con artisti.
A proposito delle collaborazioni con gli artisti, hai lavorato a diversi progetti con Diego Marcon e Anna Franceschini. Sonorizzazioni, colonne sonore, come hai iniziato a lavorarci?
Sì, abbiamo lavorato sia in trio, come Piccolo Artigianato Digitale, che singolarmente con Diego e con Anna. Ho anche lavorato con Basma Alsharif, Francesco Bertocco, Marco Belfiore. Si tratta di volta in volta di audio per installazioni, sonorizzazioni di film, colonne sonore o semplice mixaggio. Mentre facevo i miei primi esperimenti musicali, credo fosse il 2006, Diego Marcon stava lavorando ad un suo cortometraggio; mi trovai a comporne la colonna sonora ed è stato il mio primo lavoro di questo tipo. Da lì ho iniziato a occuparmi del sonoro dei lavori di Diego e a fare riprese audio. Comprammo un microfono Sennheiser 416 in società e ho iniziato a lavorare sui suoi film e successivamente anche su film di altri. Finisco sempre per lavorare a cavallo tra registrazione e colonna sonora, e a volte lascio sovrapporre i due piani. Ad esempio un lavoro di Anna su cui ho lavorato, Il giocatore non può cambiare posizione a suo piacimento, che è girato all’interno del luna park dell’Idroscalo, contiene sequenze su cui ho lavorato in maniera che i suoni registrati diventassero delle composizioni. Stessa cosa per esempio con Litania di Diego Marcon, dove in qualche modo mi trovavo a usare i suoni in maniera musicale, cercando di far sovrapporre questi piani.
E con Inland Empire invece cos’hai realizzato?
Mi è capitato spesso di suonare per Inland Empire, spesso invitato all’ultimo momento e quindi non in scaletta. Sono stato ribattezzato ‘Lo Sfollagente’, un po’ perché (musicalmente) menavo duro, un po’ perché, proprio per questo, in dieci minuti tutti scappavano. Ma ultimamente ho un folto seguito di estimatori e non mi posso lamentare!
In quali aree della città possiamo trovarti?
Io mi posiziono in Milano nord, Piazza Maciachini, ma lì non c’è granché da fare, quando devo uscire vado altrove. A volte vado a Porta Venezia, in via Melzo, ma sono più vicino a via Farini o Paolo Sarpi; in estate a volte gioco a ping pong al Circolo dei Combattenti. Un luogo per me importante è la Martesana, che non è molto distante. È affascinante perché sembra una sorta di sezione geologica attraverso diverse epoche di Milano che si interfacciano. Pedalando lungo il suo percorso, si passa da ville Liberty dei primi del ‘900 a campi Rom, sudamericani che fanno il bagno e anziani che giocano a carte. È la parte che preferisco di Milano.