* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).
Flavio Scutti (Atessa, 1978) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (Roma). Ha esposto il suo lavoro presso Digital Sweat Gallery, Hypermedia Dreams, Société Perrier, Superscope e The Wrong (online); Tate Britain (Londra); Kalpany Artspace e Viafarini (Milano); #6PM (Milano e online); CUPCAKE (New York e online); Zentrifuge (Nürnberg); VISIONS DU REEL (Nyon); Biennale Spazio Pubblico, Casa dell’Architettura, MACRO e Palazzo delle Esposizioni (Roma); Lawrence Loft (Seattle); Gallery 1965 (Vancouver).
La tua produzione si sviluppa tra arte visiva, fotografia e musica, e in generale si può dire che abbia come comune denominatore la sperimentazione elettronica. Da cosa è nato questo interesse?
Avendo avuto la possibilità di confrontarmi con un computer fin dall’età di due anni, l’elettronica per me è parte integrante della cognizione che ho del mondo. Mi sono ritrovato testimone del passaggio dai sistemi informatici industriali dell’Olivetti al personal computer e successivamente dell’avvento di Internet. All’età di dieci anni chiesi in regalo il Commodore Amiga con cui mi sono avvicinato per la prima volta al disegno e alla musica nel digitale. Adesso si indicherebbe un’esperienza del genere come una caratteristica dei ‘nativi digitali’, ma qualche anno fa non era così diffusa.
La tua formazione però parte dal teatro.
Durante il corso di Scenografia all’Accademia ebbi l’opportunità di studiare e praticare molto il teatro, anche da un punto di vista teorico, e forse attualmente è stato il periodo in cui ho letto più libri cartacei in assoluto. Conobbi degli artisti che fanno ancora parte della mia pratica artistica.
Che rapporto hai con la ricerca e l’estetica legate all’arte digitale e il glitch?
Ho realizzato la prima immagine glitch nel 2002 in un clima di completa ricerca concettuale. In quel periodo ebbi anche l’inconveniente della rottura dell’hard disk che interruppe quell’esperienza. La perdita di quasi tutti i lavori assunse l’apice di ciò che stavo generando, ponendomi il problema susseguente della conservazione dei dati digitali. Dieci anni dopo riuscii a recuperare i dati nell’hd e riconfrontarmi con quel materiale si rivelò un’esperienza paradossale. Nel tempo questo tipo di estetica è entrata anche nel mondo accademico, così tanto che quando è riuscita ad imporsi, generando infiniti gruppi di condivisione nei social network, per me era già un’esperienza archiviata.
Oltre a prendere parte a progetti come 6 PM Your Local Time o The Wrong – New Digital Art Biennale, sei anche stato dall’altra parte della barricata, curando eventi e mostre online…
Ho curato una mostra online che si chiama Revelation Group (Cableway), in cui ho chiesto ai partecipanti di realizzare un’opera con il tema bizzarro della funivia. Con questo progetto volevo sottolineare il meccanismo con cui le persone, accomunate da una ricerca artistica simile, si costituivano automaticamente in gruppo delineando i contenuti in gran parte delle gallerie online. Dopo questa esperienza il fenomeno ha preso sempre più consapevolezza ed è stato possibile gestire degli eventi di più ampio respiro come The Wrong a cui ho partecipato sia come artista che come ideatore di eventi in luoghi fisici e il WOWA che nasce dalla collaborazione con Annalisa Trapani e Laura Nomisake di Vieni Verso Il Municipio. Anche per 6pm c’era la necessità di avere uno spazio fisico e con Marco Cadioli, che voleva costituire un reale gruppo di artisti digitali nell’area di Milano, insieme ad Alessandro Capozzo, Matteo Cremonesi, Kamilia Kard e Marco Mendeni, abbiamo deciso di mettere in piedi un’esposizione in un luogo insolito per l’arte quale il WeMake.
Come ti relazioni con il circuito musicale locale?
A Milano ci sono diversi circuiti, si può fruire musica da una dimensione prossima al silenzio a una costipata nel fastidio. Posso dire che nel corso degli anni ho conosciuto delle persone con cui condivido oltre ad un gusto musicale anche delle progettualità come Andrea Guidi. Con Antonio Cavadini ho suonato nei primi eventi perché facevamo parte entrambi del circuito della Micromusic. Abbiamo suonato dai centri sociali agli eventi del Fuori Salone insieme a Martino Nencioni. Conoscemmo Marco Dolera e Francesco Bertocco che erano venuti ad un workshop di Otolab al Medionauta. Altri contatti sono maturati nella frequentazione di Spazio O’, di Unza, di Recipient.cc e del Moonshine dove abbiamo organizzato per due anni degli eventi in cui proponevamo degli artisti ai primi esperimenti pubblici come Laura Migliano e Giorgia Petri. Fondamentale è stato anche l’incontro con la 51beats. Ci sono state tante collaborazioni con altre realtà: Rexistenz, Casa Strasse, Router Radio, Womade, Sangue Disken, Neoma, Opposticoncordi, Diorama Magazine, ecc…
Restando in tema, so che hai sonorizzato video per Francesco Bertocco, Dafne Boggeri e altri. Come nascono queste collaborazioni?
Con Francesco dopo gli eventi fatti insieme in città è stato naturale lavorare anche nei suoi film e ne abbiamo realizzati due Onde e Allegoria. Con Dafne è nato tutto più spontaneamente perché esponeva dei lavori per il GAM di Torino alla Casa della Resistenza di Verbania e in quell’occasione c’era la proiezione di BOSCOH, le cui riprese, a cura di Alice Daneluzzo, vennero sonorizzate dal vivo da Adele Pappalardo, Daniella Andrea Isamit Morales e me.