Interview #55

Francesco Merlini

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Francesco Merlini (Aosta, 1986) ha studiato presso il Politecnico di Milano. Il suo lavoro è stato esposto presso Noorderlicht Photofestival (Heerenveen); Photo Oxford Festival (Oxford); Circulation(S), Festival De La Jeune Photographie Européenne (Parigi); Kolga Tblisi Photo Festival (Tbilisi); Le247 Galerie (Parigi); Spazio Contemporanea (Brescia); Angkor Photo Festival (Angkor); Month of Photography Festival (Ljubljana); Menier gallery (Londra); Oberkampf gallery (Parigi); Think Tank gallery (Los Angeles); The Apothecaire Gallery (Bristol); Biennale des Jeunes Créateurs de l’Europe et de la Méditerranée (Marsiglia).

Qual’è la tua formazione, e come ti sei avvicinato alla fotografia? E come hai iniziato a lavorare nel fotogiornalismo?

Mentre studiavo disegno industriale al Politecnico ho iniziato a fotografare amici, viaggi e questo genere di cose; era il periodo in cui riviste come Vice portavano al grande pubblico un’estetica fotografica completamente nuova. Dopo essermi laureato, mi sono ritrovato a lavorare nell’agenzia di foto-giornalismo Prospekt; dopo tanta gavetta ho iniziato a realizzare reportage e piccoli assignment per riviste italiane e internazionali. Parallelamente ho iniziato a tenere un diario: la ricerca fotografica ha iniziato così ad assumere nella mia testa un altro significato, un altro valore che ha dato vita ad un viaggio di scoperta che vede il suo punto di arrivo in me medesimo.

Che si tratti di progetti personali o commerciali, tu scatti sempre dal vero: come mai questa scelta?

Da un lato ho sempre pensato che la realtà di per sé sia già abbastanza folle e fantastica; dall’altro non mi è mai piaciuto stare su un set. Ho sempre amato l’immediatezza della fotografia, la possibilità di prendere la macchina, uscire e realizzare qualcosa di interessante. Allo stesso tempo è sempre stato il vincolo con la realtà che mi ha fatto preferire la fotografia ad altri mezzi creativi, in cui invece puoi creare una visione dal nulla.

Dicevi che sei affascinato all’idea di poter lavorare come fotoreporter, senza però dare un limite alla sperimentazione, raccontando la realtà in modo personale e ibridando così i due canali sui quali lavori…

Negli ultimi anni si sta sempre di più comprendendo il valore della relazione tra fotografia documentaristica e visione personale. Il fotografo ‘invisibile’ inizia ad essere meno interessante rispetto ad un fotografo che mette sé stesso dentro la realtà che fotografa. Questa situazione penso sia in parte una conseguenza del grandissimo numero di fotografie che ogni giorno vengono viste dalle persone. Siamo tutti anestetizzati, abbiamo bisogno di qualcosa che ci tocchi a livello più personale per emozionarci o farci riflettere.

Farang è il tuo principale progetto individuale, una stratificazione di immagini che porti avanti da anni, viaggio dopo viaggio…

Le fotografie sono state scattate in Italia, Francia, Turchia, Thailandia e Kosovo in tre anni. Ciò che connette le immagini è che, dopo molto tempo passato a fotografare in una ‘comfort zone’, le foto di questa serie sono frutto di circostanze estranee alla mia quotidianità. Non ho cercato di documentare oggettivamente queste situazioni, ma di filtrarle purché parlassero di me. Con il flash ho cercato di consacrare questi momenti di rivelazione, imprimendo me stesso sul velo che copre i soggetti di cui ho scartato la realtà oggettiva. Considero queste immagini un po’ come delle reliquie di qualcosa che è invisibile, e allo stesso tempo un mazzo di tarocchi; un singolo elemento, un oggetto, una persona sono fotografati in modo da acquisire un significato più ampio, collettivo, diventando quasi degli archetipi.

Quali sono le tue influenze e le tue ispirazioni?

Sono cresciuto guardando le foto dei grandi reportagisti e foto-giornalisti, soprattutto immagini di guerra; sono sempre stato affascinato dall’estetica della violenza e da come si possa creare qualcosa di bello da morte e da sofferenza. Ho poi iniziato ad interessarmi alla fotografia intimista: Petersen, Moryiama, Aue Sobol. Ora trovo più stimolante cercare ispirazione fuori dal circuito ‘ufficiale’ della fotografia: guardo moltissimi Tumblr, cercando modi nuovi e originali di procedere con il mio lavoro.

So che segui anche il mondo dell’editoria indipendente: che cosa ti interessa di questo media in rapporto al linguaggio fotografico?

Rispetto a una gallery online, lavorare seriamente ad una pubblicazione permette di creare qualcosa di nuovo, aggiungendo ulteriore valore ad un progetto, soprattutto quando il fotografo lavora con persone che aggiungono ulteriori livelli di lettura a quello dell’autore. L’avvento del self-publishing ha sicuramente creato una miriade di progetti molto validi ed interessanti. Allo stesso tempo però, in ambito fotografico vedo troppe volte pubblicazioni molto belle a livello grafico e di produzione, ma che una volta aperte, a livello fotografico non propongono niente di interessante; talvolta sembra quasi che gli autori investano più tempo nel design che nel progetto fotografico, e alla fine si vede.