Interview #20

Giada Carnevale

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Giada Carnevale (Vigevano, 1986) ha studiato presso l’Accademia di Brera (Milano). Ha esposto il suo lavoro presso Fabbrica del Vapore e Flagship store Enel (Milano), SISAD (Torino). Con BB5000 ha esposto presso Aldea (Bergen), 9a Biennale di Berlino (Berlino), Horizont Galéria (Budapest), Bid Projects e Davide Gallo (Milano), Hotel Art Pavilion (New York), Platform Stockholm (Stoccolma).

Ricordo il momento in cui sono riuscito ad accarezzare il mio gatto per la prima volta, dopo mesi di convivenza, di reciproca diffidenza, di misurazione dei propri spazi: un rapporto animale. Ero felicissimo per il traguardo raggiunto, ma allo stesso tempo sentivo che qualcosa si fosse rotto, come se il rapporto che avevamo fosse finito e impossibile da recuperare. So che questo rapporto uomo-animale (letto in chiave ‘post-antropocentrica’) informa la tua ricerca. Me ne parli?

Seguo uno stile di vita vegan da quasi 7 anni, quindi il rapporto animale uomo e animale di altra specie è parte del mio quotidiano. Dell’animale diverso da me mi incuriosisce la gioia di un mondo limitato, che esiste e finisce solo con la propria esistenza e trovo affascinante come sia in grado di reggere il far nulla senza crearsi stimoli esterni che possano combattere il momento di vuoto. Mi capita di tornare a Vigevano, triste, e di venire assalita di bacini da Tita (Barboncino di 1 anno e mezzo circa). Una tenacia così nel tentare di rendermi felice non l’avevo mai subita da nessuno. A lei chissà se freghi qualcosa che io sia triste o meno, ma a me frega ancor di meno: il mio e il suo mondo erano e si esauriscono lì e questo ha creato un’alleanza fortissima, indissolubile. Dove il mio e il suo bisogno hanno un obiettivo comune (seppur sicuramente diverso) e lo portiamo a compimento ognuna nella propria e, forse incomprensibile all’altra, peculiarità.

Così come il rapporto uomo-cane definisce una rapporto di autosufficienza antagonista (quel ‘noi vs. il mondo’ che descrivevi), anche l’adolescenza, un altro tema ricorrente nel tuo lavoro, mantiene quell’attitudine solipsistica positiva. Che forme ha preso questo interesse nella tua pratica?

Trovo nell’adolescenza quel momento che si nutre di pure emozioni elevate a potenze quasi inesistenti. Tutto assume un retrogusto romantico e grottesco allo stesso tempo, dove il domani non esiste perché domani-poi-vediamo: è bellissimo. Questo momento ha per me un grande fascino estetico. Nella mia pratica prende forme diverse: Love at first sight (2015), è un lavoro video composto da una sequenza molto breve dove un ragazzino sui 14 anni sorride mentre gli esce sangue dal naso e si riprende con un iPad. In quei 30 secondi avviene quello che dicevo prima: c’è esaltazione, irresponsabilità, bruttezza, tenerezza, il tutto filtrato da me e quindi da una malinconia che è propria della mia fase anagrafica di post-post-adolescenza.

So che hai passato del tempo con micro-comunità molto specifiche, ad esempio per realizzare The Swimmers: qual è la tua esperienza, che relazioni hai instaurato personalmente con queste persone?

Le micro-comunità sono per me campo di indagine ricorrente concatenato all’animalità dell’uomo e all’adolescenza. Giocatori di Rugby, hippies, nuotatori di cimento invernale, persone che partecipano alla stessa festa ecc. Per realizzare The Swimmers ho iniziato ad incuriosirmi di cimenti, che sono in parole povere, nuotate al freddo; ho seguito gruppi che trovavo nel web e che si accordavano per fare queste nuotate. Ho chiacchierato con loro e li ho osservati, fino a che un giorno di febbraio ho partecipato anche io. Mi sono ritrovata ad una festa incredibile con tanto di travestimenti improbabili, cibo gratis per tutti e desiderio incondizionato di divertimento sfrenato. La situazione era grottesca e romantica allo stesso tempo e quindi per me, perfetta. Mi sono affezionata a questo momento di festa, di perdita completa e volontaria di inibizioni che sento molto vicine all’adolescenza e ad una certa animalità dell’uomo. La festa a volte permette di sentirsi libero in gruppo, di potersi perdere un po’ e poi di ritrovarsi e tornare a Casa. Questi momenti di ilarità li trovo romantici e quindi me ne innamoro e le persone che osservo entrano nella mia sfera affettiva diventando ancora materiale al quale posso approcciare in modo libero, spontaneo e forse estetico.

É necessario un aspetto collaborativo nella tua pratica, oppure sarebbe la stessa, senza?

Credo che a mio modo cerco sempre di creare una rete collaborativa che mi permetta in primo luogo di generare a mia volta una micro-comunità, in secondo luogo per permettere al lavoro di scapparmi un po’ dalle mani, di sorprendermi e di potermene quindi innamorare per qualche secondo. Mi piace quando le cose non mi somigliano troppo, perché mi annoio un pochino.

Come gestisci questa necessità e allo stesso tempo quella di dover bilanciare la tua pratica con quella di altri, in un progetto collettivo come BB5000, di cui fai parte?

La gestisco chiedendo semplicemente a chi mi piace di partecipare, di accompagnarmi a vedere una partita di rugby under 16 o di realizzare una scultura seguendo le mie indicazioni ma il proprio gusto. BB5000 funziona e produce solo al raggiungimento della piena soddisfazione di tutti i suoi componenti, una piccola società anarchica. Utopica? Forse no. Il lavoro subisce 5 sguardi e cresce, riflette su sé stesso assumendo forme nuove e inaspettate. Con il gruppo ho la possibilità di riflettere e lavorare come da sola non farei perché le proprie abitudini inevitabilmente sfumano per accoglierne di nuove. Per spiegarmi meglio ma in modo sciocchino, potrei confidarti che io ho sempre ammirato chi è capace di lavorare di notte, di restare sveglio fino a molto tardi; bene, BB5000 lavora praticamente solo la notte e quindi io già in questo, posso essere qualcosa che da sola non sono e forse nemmeno voglio essere, ma che mi piace.