Interview #7

Giada Montomoli

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Giada Montomoli (Massa Marittima, 1986) ha studiato presso IED (Milano). Il suo lavoro è stato esposto presso: Liling Ceramic Valley Museum (Hunan); View Gallery (Jingdezhen); Northeners (Los Angeles); 5 vie Design Week, Marsèll Paradise, Adidas Store (Milano); China International Gallery Exposition (Pechino); Design week (Stoccolma).

La tua formazione inizia allo IED, indirizzo design di interni. Questo percorso non è così distante da alcuni aspetti del tuo lavoro attuale, non a caso ti definisci una surface designer.

Surface design parla proprio di superfici. Mi sono sempre sentita stretta o fuori luogo in tante definizioni: volevo qualcosa che fosse più vasto come concetto e fu così che trovai ‘surface design’. Mi piace l’idea di progettare su superfici, ogni volta possono essere di un materiale diverso. Però ammetto che anche questa definizione non mi convince tutte le volte, forse è dare un’etichetta a quello che sono, che non fa per me.

Per un periodo ti sei dedicata con regolarità al design di pattern modulari, sviluppandoli analogicamente con una tecnica di piegatura. È stato allora che hai iniziato ad interessarti all’idea di espandere i tuoi disegni sulle superfici?

L’ordine è stato sicuramente inverso: volevo lavorare con i pattern ma disegnare a computer non mi è mai piaciuto, quindi ho cercato un approccio che facesse per me. Devo dire che lavorare con Lotta Jansdotter è stato in qualche modo di aiuto.

Inoltre so che hai fatto graffiti per anni. Questa pratica ha influenzato il tuo immaginario, o il tuo metodo creativo?

I graffiti mi hanno dato sicuramente molto: amici, esperienze di vita, sentirmi parte di un club speciale. Ma non sono mai stata molto brava, credo che solo dal momento in cui mi sono allontanata da quei paramenti – e dalle regole con le quali si suppone si faccia buon graffito – io abbia invece trovato la mia strada. Sicuramente ha contaminato il mio approccio al design e all’illustrazione, rendendola meno accademica.

Poi hai anche realizzato Buildings, una serie di disegni molto minimali raffiguranti edifici famosi, come la Torre Velasca. In un certo senso si più dire che tu abbia ribaltato il tuo passato da writer: hai disegnato palazzi anziché disegnarci sopra, e sei passata dal macro al micro, perché disegni in piccolissima scala..

Sicuramente è un’evoluzione del fascino che la strada ha per me, solo la metabolizzo in un altro modo.

Mi hai detto di essere molto affascinata dal simbolismo in tutte le sue forme. Quali sono le tue maggiori influenze?

È nato tutto a scuola durante le lezioni d’arte, sono sempre stata una frana ma quella materia mi affascinava molto, non per la pittura o per le tecniche, ma per i messaggi. Era bellissimo sapere cosa ci fosse di nascosto dietro ad un oggetto o una composizione. Poi crescendo, e con i graffiti, ho letto molti libri su varie sottoculture e sui i simboli camuffati da abbigliamento e accessori che le persone usano per identificarsi in un gruppo e parlare di sé stessi. Ho appena visto un servizio fotografico sui Cholombianos di Stefan Ruiz, ragazzini messicani che attraverso abbigliamento, accessori e cumbia hanno creato un modo loro di essere colombiani senza esserlo, molto bello. Credo quindi che a modo mio disegno quello che vedo, semplifico gli elementi e li rendo simboli della nostra generazione.

Tu stessa sei di origine colombiana. Pensi che questa cultura ti abbia in qualche modo influenzato?

Senza dubbio. La cultura sudamericana è fatta di elementi indigeni, africani, cattolici, europei, meticci e pagani. Uno dei miei preferiti è la maschera de La Marimonda del carnevale di Barranquilla, che simboleggia l’atteggiamento festoso e burlone delle persone della sua città.

Quando WOVO store ha aperto i battenti a Milano, hai realizzato Boobs, un neon site specific. Che cosa ti spinge a lavorare sul tema dell’erotismo e della sessualità?

Come dicevo prima, riguarda sempre il mio problema nel dovermi identificare in qualcosa e la passione per i simboli. Sono attratta dalla cultura queer e mi piacerebbe che il mondo avesse un concetto della sessualità più libero – e con libero intendo cosciente, maturo e informato. Cerco quindi di esplorare questo mondo usando lo stesso approccio.

Raccontavi che nel tempo ti è capitato di essere in difficoltà nel presentare alcuni lavori più commerciali, in quanto considerati ‘troppo femminili’. Come vivi questo tipo di dinamiche in ambito creativo e come sei riuscita a trovare un tuo equilibrio rispetto all’argomento?

I miei lavori hanno sicuramente un’anima femminile, ma sono certa di non rientrare in quel mondo fatto di cose ‘cute’. Scelgo quindi di lavorare con persone che vanno oltre la definizione di cose ‘per uomini’ e cose ‘per donne’.

Un paio di anni fa hai aperto uno studio con Luca Font, artista, tatuatore e tuo compagno.

Gli ultimi anni sono stati pieni di viaggi, abbiamo visto tante belle cose e conosciuto persone piene di talento: volevamo in qualche modo avere un luogo dove custodire e mostrare questa esperienza diventando una vetrina creativa, oltre a essere un posto dove disegniamo e lavoriamo.