Interview #26

Lucia Leuci

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Lucia Leuci (Bisceglie, 1977) ha studiato presso Accademia delle Belle Arti (Aquila), Hoge School Sint-Lukas e Università degli Studi di Bari (Bari). Il suo lavoro è stato esposto presso Museo Civico Storico e 63rd-77th STEPS (Bari), Cittadellarte – Fondazione Pistoletto (Biella), Localedue (Bologna), CRAC (Cremona), a+mbookstore, Careof, Fondazione Pini e TILE Project Space (Milano), Unit110 (New York), Curated by Lolita (Parigi), Polansky Gallery (Praga).

Negli ultimi anni hai dato vita a dei personaggi veri e propri, donando loro non solo una fisicità ma anche una storia. Parliamo di Rose, Kyoko, e di altre ‘ragazze’ create da te.

La descrizione dei personaggi è un’operazione narrativa. Rose’s Portrait nasce dall’osservazione delle circostanze esterne, rese plasticamente nel ritratto di una giovane donna. Realizzare Rose è stato un processo complesso che ha richiesto diverso tempo e vivendo in una casa-studio ho avuto modo di affezionarmene. Ogni mattina facevo colazione con un ‘abbozzo’ di lei accanto, distesa nel proprio calco. Ho cominciato a pensare a chi e come sarebbe potuta essere, se fosse stata una ragazza reale. Nel testo ho descritto le sue attitudini e desideri, le sue motivazioni. Kyoko sulle Alpi ha invece una personalità più astratta e cupa. Tramite l’utilizzo del colore nero ho voluto delineare il senso di estraniazione dalle proprie origini di un’adolescente immigrata di seconda generazione. Kyoko è un nome giapponese che significa ‘ragazza della città’. Ho infine cercato di interpretare quell’equivoco che spesso si crea quando un occidentale scambia frettolosamente una persona cinese per giapponese, e viceversa. Andrea, Nina e Denise è il titolo di un lavoro composto da tre marsupi colmi di resina color carne e capelli che scivolano oltre le zip: rappresentano le altrettante ragazze che li hanno indossati durante un workshop tenuto, assieme a Michele Gabriele, nel liceo artistico di Cremona. In questo caso un lavoro nato per essere esposto a parete, è diventato ‘altro’ grazie alla curiosità di tre studentesse che, scambiandosi i marsupi, mi hanno dato una chiave di lettura differente.

A partire dal progetto della mostra di Fanta Spazio Susy Kulinski & Friends, hai lavorato a una serie di disegni sviluppando notevolmente la tua tecnica e ricerca. Vuoi parlarcene?

Sono stata invitata a prendere parte a questo progetto collettivo da Beatrice Marchi, il cui parametro era la tecnica del disegno. Ho sempre disegnato, ma da tempo non utilizzavo questa competenza tranne che per la fase progettuale dei miei lavori. Ricominciare a pensare al disegno come opera d’arte, e non solo come bozzetto preliminare, è stato come iniziare nuovamente un percorso. Ho sicuramente guadagnato in libertà espressiva.

Affrontiamo il tuo rapporto con la scultura, e con la resina in particolare.

Ho imparato a usare le resine negli ultimi anni e me ne sono subito innamorata. Da un lato è una maniera molto antica di procedere, secondo la logica dei positivi e dei negativi, dall’altro i materiali a disposizione sono in continua evoluzione e tecnicamente ricchi di sorprese. A volte il progetto iniziale si modifica, durante le diverse fasi di lavorazione, per adeguarsi alle caratteristiche del materiale. Questi ostacoli si trasformano in slancio creativo dandomi la possibilità di ripensare all’opera con criteri differenti.

Hai iniziato la tua pratica con la fotografia. Come e perché hai scelto questo campo come punto di partenza?

Ho studiato all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila dove gli insegnanti erano molto preparati e ‘professorali’. Certe situazioni stavano tornando a galla: per esempio, il ruolo della donna-artista che si riconfermava attraverso l’utilizzo della performance documentata fotograficamente. Queste circostanze mi hanno spinto naturalmente verso la fotografia. È stato un periodo importante per riflettere sul corpo, e mi è rimasto uno sguardo più dettagliato sulla realtà. Forse è per questo che, essenzialmente, definisco il mio come un lavoro di osservazione.

I tuoi lavori sono prevalentemente basati sul corpo femminile: il femminismo ti ha condizionata?

Non penso, anche se la libertà acquisita e tutto quello che siamo lo dobbiamo senz’altro a questo movimento. Tra la fine degli anni ‘90 e la metà degli ‘00 molte artiste hanno iniziato a svolgere ricerche su se stesse – penso a donne più grandi di me, come Sam Taylor Wood, Pipilotti Rist o Giulia Caira e Ottonella Mocellin, ma anche Elke Krystufek con la sua pittura è stata importante per la mia formazione.

I tuoi lavori includono sia materiali tecnici che accessori trovati in botteghe. Dove vai a comprare il materiale per il tuo lavoro?

Sicuramente ai grandi mall cinesi prediligo le piccole attività a gestione famigliare. La ricerca degli oggetti è un pretesto per trasportare nelle mie opere le personalità che incontro: nelle continue derive per la città è possibile imbattersi in quelle esistenze che verranno poi traslate nel mio lavoro attraverso l’utilizzo delle cose acquistate.

Cosa ti piace del quartiere in cui abiti?

Un tempo Porta Venezia era considerata zona periferica ed era abitata da famiglie di immigrati che vi avviarono le proprie attività. Abito una vecchia casa di ringhiera, ho un bel rapporto di amicizia con i condomini e i negozianti della via: rappresenta per me un confronto con realtà diverse. Quello che più mi piace è la dimensione umana e l’idea di quartiere circoscritto, tutto mi sembra a portata di mano.