Interview #66

Marco Ceroni

Marco Ceroni (Forlì, 1987). Ha esposto il suo lavoro da GALLLERIAPIù (Bologna), Toast Project Space (Firenze), La Triennale (Milano), NESXT (Torino), PAV (Torino), AplusA (Venezia), Fondazione Francesco Fabbri (Pieve di Soligo), Viafarini (Milano), Villa Vertua (Nova Milanese).

Il tuo studio si trova a Nolo, dove da poco si è tenuta la BienNolo. Tu eri tra gli artisti invitati: che cosa hai portato?

Ho portato una performance che avevo in testa da un annetto. Quando ho visto lo spazio che mi hanno proposto (la ex fabbrica di panettoni Cova, ndr) ho visto che era la location giusta per realizzarla.In questo spazio industriale è entrata una tribù di 5 motorini compiendo alcuni caroselli intorno ad un elemento centrale – un palo da pole-dance – che da una parte funzionava da menhir, da oggetto totemico, e dall’altra era un elemento fortemente urbano. Dopo aver composto un cerchio intorno al palo, da uno dei motorini scendeva la performer, una ballerina di pole dance e contorsionista, che indossava una maschera ricavata dalla carena anteriore di uno scooter. La sua figura oscillava tra entità soprannaturale e capo tribù. Una volta al centro, si è avviluppata al palo e ha ballato per un minuto mentre i motorini davano gas al massimo fermi sul posto. Da una parte il rombo dei motori dava voce al corpo della performer e viceversa lei dava corpo al loro grido. Una volta scesa è risalita in sella, i motorini sono ripartiti e hanno lasciato la scena. Mi piaceva l’idea di proporre un lavoro con una dimensione veloce, un rituale nomadico che si fonde con uno schianto metropolitano in un luogo chiuso che richiamava l’immaginario rave e che aveva i tempi di una tag: arrivi, colpisci e scappi. Poi ho lasciato le maschere che vedi qui in studio esposte per tutta la durata della mostra.

Come si intitola?

Si intitola Pupa, è un doppio senso che cita il gergo di strada ma anche la fase in cui l’insetto cambia forma, fa cadere la maschera – muta e diventa qualcos’altro.

Come sono fatte queste maschere?

Con dei pezzi di motorino. Infatti, le sculture prendono il titolo dal modello: Nitro, Rocket, Pegasus, Spirit… A ognuno cerco di tirare fuori la sua personalità, il suo superpotere. Intervengo sulle carene preesistenti con la tecnica del tuning, utilizzata per modificare pezzi di automobili e moto, innalzandole a feticci che poi ri-collassano violentemente nel presente, nel quotidiano.
È quello che ho sempre cercato di fare, far esplodere il potenziale immaginifico dell’oggetto che poi però ri-collassa sempre in quello che è. Un continuo cortocircuito tra reale e verosimile, tra quotidiano e perturbante, tra banale e soprannaturale. Continuerò a portare avanti questo lavoro e mi piacerebbe lavorarci anche con altri materiali, forse la ceramica. Queste maschere richiamano le infinite file di demoni del Libro Tibetano dei Morti, ma anche le Tartarughe Ninja o gli Street Shark, queste bande che a loro volta ri-collassano sempre in regaz in motorino che attraversano la città, col loro feticcio con cui cercano di crearsi una soggettivazione nel deserto che li circonda.

Come mai sei in fissa con i motorini?

Il motorino ce l’ho da quando ho 14 anni, è il simbolo della piazza, ed essendo della provincia, era anche il simbolo della libertà, della fuga. Io sono di Faenza, ma qua a Milano ho vissuto tanto tempo in Corvetto, un quartiere che amo tantissimo. Ho abitato in uno squat per due anni e poi all’interno dei caseggiati popolari. In alcuni cortili c’erano tutti questi ragazzini che passavano il tempo a smontare e ri-assemblare motorini. Trovavi delle carcasse rimontate in forme assurde, inesistenti. Tutto questo ha matchato con il mio background: la Romagna, i rave con la loro tribalità, i totem all’entrata, l’influenza della Mutoid Waste Company.
Tutta la mia ricerca parte sempre da fascinazioni molto viscerali che incontro in strada, nasce tutto fuori dallo studio.

Recuperi anche materiali per strada?

Sì, questa l’ho trovata l’altra sera in viale Monza. Avevo già in testa di riutilizzare la scocca di un motorino, mi serve un po’ da prototipo. Anni fa ho dipinto d’oro alcune carcasse di automobili abbandonate, ma ogni volta che ho fatto questa operazione hanno portato via la macchina dopo qualche ora, cambiava la percezione dell’oggetto e del paesaggio che lo circondava.

E questa mandibola?

Questa mandibola che vedi fa parte della mia ultima personale “NOW NOW” in un project space a Firenze che si chiama Toast. È dentro all’ex manifattura tabacchi nell’ex gabbiotto del guardiano che mi ricordava molto i tempietti super-rough che trovi a bordo strada in Thailandia e altri posti che ho attraversato. Queste due mandibole in cemento all’ingresso avevano una visiera da moto iridescente innestata e fungevano da guardiani del tempio. L’opera si chiama Horizon: le due sculture creano una torsione temporale tra passato e futuro e ri-collassano nell’adesso. Il momento della visione di questi guardiani provoca un ribassamento dello sguardo, creando un orizzonte in bilico tra accelerazione e staticità? cosmica. Mentre dentro c’era il demone che lo popolava, ricavato da un phantom, con questa bocca gigante con una spirale che inghiotte.

Guardando i tuoi lavori mi sto chiedendo se ti senti un po’ nostalgico.

Da un certo punto di vista sì. Preciso che non tornerei mai indietro. Mai. Ma penso alla nostalgia come a qualcosa che friziona, che ti fa vedere qualcosa di nuovo, come quando sei pischello e vedi i regaz col motorino bombato, o quando dalla provincia vai per la prima volta a Bologna e scopri il Livello 57 dei tempi, vedevi mondi sconosciuti, tutte queste cose erano completamente nuove, mentre adesso, anche per l’età, non trovo più una cosa che mi faccia pensare “voglio essere lì dentro, voglio fare quello”.