Interview #60

Matteo Cremonesi

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Matteo Cremonesi (Milano, 1986). Ha studiato presso l’Accademia di Brera (Milano). Ha esposto il suo lavoro presso Still Gallery (Anversa); Docva, Fondazione Hangar Bicocca e Nowhere Gallery (Milano); Family Business (New York); The Orange (Seoul); Museum of Art (Tel Aviv); Jarack Gallery (Venezia).

Oggetto del tuo occhio sembra essere un ‘terzo paesaggio’ quotidiano fatto di oggetti normalmente trascurati. Eppure accomunati da delle caratteristiche difficili da delineare chiaramente… Quali sono?

Ciò che mi spinge verso un soggetto è la sua capacità di incarnare un carattere ‘burocratico’, di essere cioè contemporanemente, a se stesso e alla sua funzione, un soggetto/oggetto di genere. Nel mio lavoro non c’è nulla da vedere, quasi nulla. O meglio, c’è ciò che vediamo costantemente senza guardare. Credo la mia pratica possa raccontarsi come una placida osservazione e registrazione di ciò che è costantemente vicino, quotidiano, apertamente insignificante, ‘democratico’.

Cosa intendi per soggetto ‘di genere’?

Intendo categorie di soggetti che hanno in comune proprietà essenziali e differiscono per proprietà non essenziali.

Quel senso giapponese di sabi che un occidentale collega erroneamente quanto automaticamente a un carattere ‘anonimo’ sembra essere, storicamente, legato a doppio filo con il successo del design occidentale più iconico. Oggi, dopo il design postmoderno degli anni ’80, si è tornati alla semplicità della penna Bic con il successo dell’iPhone: un monolite con un’agenda politica. Che relazione ha l’estetica con la dimensione sociopolitica nel tuo lavoro?

Il mio lavoro riflette sugli assetti formali dell’habitat contemporaneo, ragionando per questi un modo poetico per rapportarvisi. I processi di normalizzazione, l’attitudine inclusiva dei mercati, le loro produzioni, i valori estetici proposti da questi, sono temi costanti della mia pratica e osservazione. Un ragionamento non privo di emotività su quanto ci circonda e il modo in cui questo ci racconta e ci cambia.

Che rapporto hai con i tuoi soggetti? Li studi a lungo, ci passi del tempo insieme prima di arrivare al momento della messa in posa, o usi la fotografia come strumento per esaurirli, consumarli?

Penso al mio lavoro come ad un’osservazione che inizia con il notare qualcosa per poi decidere su questa un’attenzione. Per acquisire familiarità con il soggetto mi è necessario rivederlo molte volte ed in diversi momenti, frequentarlo sino conoscerlo a memoria. Questa convivenza può durare settimane o mesi, e nella maggior parte dei casi non porta alla realizzazione di nulla, muore, incapace di risollevarsi da una pigrizia dello sguardo che mi dispensa dall’iniziare un gesto. Solo quello che sopravvive a questa danza umorale, diviene soggetto. Indago la superficie attraverso l’inquadratura e l’impaginazione. Riconosco in questo rapporto, fra superficie, inquadratura e impaginazione, la mia pratica di attenzione. Tento, attraverso il seriale racconto fotografico, di riferire ogni traccia, ogni dettaglio, ogni carattere retorico della forma. Mi soffermo a guardare le parti, selezionando quelle porzioni di superficie, di ‘pelle’, che trattengono una tensione, in sintonia con la mia impressione di questa. Cerco di comprenderne il potenziale formale, la noia, tentando di liberare il soggetto dalla sua primaria funzione per restituirne un impressione di ‘genere’.

Il tuo è un utilizzo funzionale della fotografia come medium o c’è una volontà di inserimento in una tradizione?

Sì, credo si possa parlare di un utilizzo funzionale del medium fotografico. Tuttavia alcuni caratteri formali del mio lavoro possano facilmente trovare in una certa tradizione fotografica, (la Scuola di Düsseldorf ad esempio), un punto di aderenza. Di recente sto guardando molto il lavoro di Franco Vimercati in cui mi sembra di poter rintracciare diverse affinità formali e biografiche.

Mi racconti della tua fascinazione per il Medio Oriente e dei tuoi viaggi?

Il Medio Oriente ha sempre esercitato un forte fascino nel mio immaginario. Un fascino che ho avuto l’occasione di mitigare attraverso alcuni viaggi. Attraversamenti da cui ho appreso la possibilità di trattenere un punto di vista che ponesse nel segno, e nella sua pratica sintetica, vitale, silenziosa, lontana dalle parole, un valore rappresentativo essenziale.

Sembra che Milano stia gradualmente acquistando autocoscienza e con questa anche un po’ di orgoglio rispetto alla propria specificità, un fenomeno davvero recente: fino a pochi anni fa non era così. Lo senti anche tu? Riusciresti a descrivere in cosa consiste per te questa specificità?

Sì, concordo; negli ultimi anni sono avvenuti diversi cambiamenti, si assiste ad una sorta di ‘fermento’. Personalmente credo il graduale venir meno di un sostegno economico da parte di realtà più strutturate e delle conseguenti sicurezze che questo comportava, abbia incoraggiato iniziative personali e realtà indipendenti alle quali, accanto a ciò che è sopravvissuto alla crisi economica, sembra essere stato affidato il compito di riorganizzare il dialogo con la stessa città. Questo ‘movimento’ non è tuttavia privo di complessità, e resta da vedere se sarà capace di incoraggiare qualità o invece organizzare semplicemente fuochi fatui.