Interview #24

Michele Gabriele

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Michele Gabriele (Fondi, 1983) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) e l’ Universitè 8 (Parigi). Il suo lavoro è stato esposto presso Et.Al.Gallery (San Francisco); OJ Art space (Istanbul); 9th Berlin Biennale e Horse and Pony Fine Arts (Berlino); Galeria da Boavista (Lisbona); Ginny Project (Londra); Konstanet (Tallinn); Studio E1, Cité internationale des arts (Parigi); Fondazione Pini (Milano); Store Contemporary (Dresda); Lust Gallery (Vienna); Barriera (Torino); Overgarden (Copenhagen); Project Space Pacific Place, (Amsterdam).

All’inaugurazione della tua mostra a TILE Project Space a marzo 2015 mi dicesti che per quanto riguarda le tue intenzioni rispetto alla percezione del lavoro da parte dello spettatore, il tuo pensiero può essere vicino a quello di uno scultore minimalista. Questa frase da allora mi si è fissata in mente: la trovo molto interessante. Potresti elaborare quest’idea?

Non ricordo i termini esatti che usai quella volta, ma certamente non parlavo di minimalismo come tendenza nell’arte degli anni ‘60. Era semmai un modo semplice per facilitare la lettura del mio lavoro. Un modo per andare oltre il suo aspetto e parlare di ciò che mi interessava. In quell’occasione: di dicotomia, equilibri e disequilibri. Capisco che un’opera è finita quando le forme si staccano dalle mie mani e sembrano essere lì da sempre, ma anche visioni di forme che non esistono ancora. Attraverso il mio lavoro, chiedo allo spettatore di intendere l’opera come qualcosa che almeno in parte non ho realizzato io ma tutt’al più che ho scelto, trovato così com’è, da qualche parte. Questo atteggiamento può aiutare a raggiungere la giusta distanza.

I tuoi lavori sembrano venire da un tempo e uno spazio che non ci appartiene. Eppure fanno capolino qua e là oggetti di uso quotidiano che innescano una relazione affettiva con lo spettatore. L’effetto è una continua tensione fra il rassicurante e il perturbante…

Che bello quando trovo una mia opera postata su un blog che colleziona immagini con determinate caratteristiche specifiche, o esempi di un determinato immaginario. E la mia opera è lì. Magari a causa di un dettaglio così trascurabile che finché non la vedo inserita in quel contesto, non avevo neppure notato. Questo condizionerà la mia produzione futura? Ignorerò la cosa? Ammiccherò a questa, o cercherò di contraddirla? Per me, l’utilizzo di alcuni oggetti, nasce da un’esigenza di controllo rispetto ai meccanismi che portano alla comprensione e alla distrazione.

In un lavoro che come il tuo ragiona molto su questi meccanismi proiettivi di chi guarda, c’è spazio anche per – e in caso come si manifesta – una componente autobiografica?

È tra le righe. La notano le persone che ne sono coinvolte. Alexander of bronze (2015), ‘Alessandro di bronzo’, è la versione in bronzo di Alessandro di Pietro; un monumento alla sua prematura scomparsa qualora dovesse avvenire, eppure somiglia molto al cane di una mia amica, ma anche mi fa pensare a Marco, un amico che davvero non c’è più. Alcune cose sono vere, altre sono frutto della volontà di voler trovare se stessi nel lavoro di qualcun altro. Cerco di tenere quanto più possibile il mio lavoro aperto a questo tipo di interpretazioni. Anche al fraintendimento. C’è sempre una componente autobiografica, ma a volte è inenarrabile, altre volte composta di elementi sostitutivi. Se una storia per sembrare vera e per comunicare meglio se stessa deve essere diversa dalla mia, diversa da se stessa, da quella che ha generato il lavoro stesso, allora la sostituisco con una equivalente ma più efficace.

Mi pare di capire che ti interessi in qualche modo il disattendimento delle aspettative… Come lo metti in atto e che rapporto hai con la documentazione del tuo lavoro?

La delusione è la nuova soddisfazione. Certamente uno dei miei desideri è che lo spettatore percepisca di non essere il destinatario del mio lavoro. La soggettività nella lettura di un’opera è deprimente, demotivante, eppure molto divertente; sarebbe bello utilizzarla come se fosse uno dei materiali in una scultura. Spesso ho sentito l’esigenza di occuparmi personalmente della documentazione che per me è più che altro un display, ma anche l’opera stessa, con un’altra forma. La documentazione dovrebbe essere in grado di suggerire gli elementi non rappresentabili di un’opera. Per molte opere, sarà l’unica cosa che resta e l’unica cosa che viaggia. Ho sempre pensato: questa mostra verrà vista da 500 persone. Ma questa immagine verrà vista tutti i giorni e per sempre, da milioni di spettatori, decontestualizzata e magari fraintesa. Sento l’esigenza di pormi questi problemi quando mi rapporto alla documentazione di una mia opera. Uso questo momento per riflettere e lavorare ancora, con un ulteriore punto di vista. Per Shitty-Slippy-Slutty (2015) prima di realizzarla fisicamente, avevo lavorato all’immagine che sarebbe stata la sua documentazione. Una documentazione in anticipo ed una previsione del futuro. Matteo Mottin, curatore nel 2015 di Time Dreaming Itself nello spazio di Barriera, a Torino, mi chiese se avrei potuto esporre proprio quell’opera poiché non era a conoscenza del fatto che Shitty-Slippy-Slutty esisteva solo virtualmente. Ho lavorato rincorrendo l’opera a ritroso nel tempo per renderla fisica. Partendo da un’immagine frontale, ho dovuto affrontare la sua terza dimensione, ma anche confrontarmi con l’aspettativa che avevo creato e con le possibilità di soddisfarla o deluderla, costruendo il retro della figura, che, allora, non avevo ancora immaginato e mostrato.