Interview #42

Priscilla Tea

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Priscilla Tea (Milano, 1983). Il suo lavoro è stato esposto presso Neumeister Bar-Am e Tthe Composing Rooms (Berlino); Preteen Gallery (Città del Messico); PAC, Istituto Svizzero, GLORIAMARIA Gallery, Galleria Fac-Simile e Museo Pecci (Milano); Hussenot (Parigi); Thessaloniki Biennale 4 (Thessaloniki); DAMA (Torino), Padiglione Internet presso 55a Biennale Arte (Venezia).

Il tuo lavoro si situa in uno spazio a metà tra il reale e il virtuale. Metodologicamente come riesci a realizzare questa sintesi? È una convivenza pacifica?

Credo che ormai reale e virtuale siano la stessa cosa, cioè siano due versioni della stessa realtà. La sintesi tra questi due spazi è qualcosa che già esiste e con cui conviviamo quotidianamente. I miei quadri ne sono solo un riflesso.

Essendo, a livello tecnico, il tuo lavoro connesso allo sviluppo tecnologico, hai potuto notare un’evoluzione, dei cambiamenti nella sua realizzazione, negli anni? O al contrario hai voluto mantenere una certa indipendenza da questo sistema sempre più accelerato?

Sono collegata allo sviluppo tecnologico, ma solo in parte; cioè è vero che i miei disegni partono sempre dallo schermo utilizzando i vari strumenti di diversi programmi e quindi la loro evoluzione può portare a nuove tecniche, ma la parte più interessante di questo sviluppo è collegata all’internet e alla nuova informazione che ci ha dato sulla realtà, cioè il suo riflesso digitale.

Ti faccio la stessa domanda rispetto agli spazi che hanno suggestionato il tuo lavoro – virtuali come Second Life, e reali come Los Angeles e Atene, per esempio: ti capita di rivisitarli a distanza di tempo? Come influisce questa progressione del tempo sullo spazio, nel tuo lavoro?

Mi capita di ritornare in Second Life, non ci vado spesso ma penso che adesso che è stata semi abbandonata sia più interessante, forse perché il tempo l’ha umanizzata, l’ha resa un luogo dove ci sono resti di luoghi abitati e passati, le ha dato una configurazione più reale non tanto come Active World ma come spazio (territorio) online.

Che qualità ti hanno colpito di questi spazi, in primo luogo, tanto da suggestionarti?

Per quanto riguarda i luoghi reali che mi hanno influenzata, Los Angeles è al primo posto. È una strana città artificiale costruita in un semi deserto e dove non ci sono codici che definiscano i luoghi o gli ambienti come in Europa. Il clima è sempre uguale e dà la sensazione che il tempo non passi, che sia sospeso e lo spazio dilatato. Quando penso a L.A., nella mia memoria è un luogo che fluttua tra reale e non.

Dopo anni di peregrinazioni tra Londra, Parigi, Los Angeles e Atene, nel 2010 ti sei trasferita nuovamente nella tua città natale, Milano. Come il suo paesaggio ha influenzato la tua opera e come l’hai vista cambiare?

Sono tornata a Milano perché era il luogo dove potevo lavorare meglio, Milano è una città che non ti invade, non ci sono molti artisti, non c’è una scena, è molto calma ma questo contesto che sembra piatto lascia invece molto spazio alla produzione, da questo semi silenzio credo nasca un forte stimolo.

Che rapporto hai con gli aspetti della traduzione legati alla differenza fra la precisione insita nell’immanenza del disegno digitale e quella di un controllo sicuramente più parziale in fase di realizzazione? C’è un’accettazione dell’imprecisione o la volontà di un controllo rigoroso?

Non sento di avere nessuna particolare relazione rispetto a questo rapporto.

Sei stata partecipe e testimone di una storia, quella dell’arte ‘internet aware’ – o come la si voglia chiamare – che è andata sempre più in direzione di una reificazione, come oggetto e come oggetto di scambio all’interno di un mercato, e dell’utilizzo di quello che fu il suo luogo originario, la sua culla (l’internet appunto) come mero circuito per la circolazione dell’immagine. Immagino che questo, nel tuo lavoro che fin dall’inizio ha avuto questo passaggio dal digitale al reale come metodo e tema, seppure in termini più astratti, abbia suscitato molte riflessioni…

Gli artisti che mi circondavano quando ho iniziato a dipingere facevano opere che nascevano e finivano online, erano siti con flash animations; questi artisti consideravano l’internet non come un pezzo di tecnologia ma come un emotional landscape. C’era un posto a L.A. chiamato Electronic Orphanage, un posto che era costruito come un grande schermo che dava su Chung King Road che agli inizi del 2000 raggruppava questi artisti – tra loro c’erano Angelo Plessas, Rafael Rozendaal, Andreas Angelidakis e Miltos Manetas. Ancora oggi questo sguardo sul paesaggio che c’è oltre lo schermo è quello che mi influenza, anche se il post-internet è come se avesse fatto un passo oltre.

E personalmente, che rapporto hai con la documentazione?

In realtà ho un pessimo rapporto con la documentazione, credo che oggi con internet sia andata fuori controllo, credo che la quantità di immagini riferite allo stesso soggetto allontani dalla verità di quel soggetto quanto la scarsità di informazioni. L’internet è per sempre e credo sia l’unica documentazione esistente.