Interview #67

Viola Leddi

Viola Leddi (Milano, 1993) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) e presso la Scuola di Arti Visive dell’Accademia di Belle Arti (Copenhagen). Il suo lavoro è stato esposto presso TILE Project Space (Milano), ADA Project (Roma). Nel 2017 ha co-fondato il progetto di ricerca Altalena, attivo nell’organizzazione di residenze e nella pubblicazione di libri d’artista.

Un tema ricorrente nel tuo lavoro è la citazione iconografica, in particolare modo quella legata alla rappresentazione della natura e della figura femminile.

Sì. Negli ultimi due anni ho pensato molto alle modalità con cui il corpo femminile è stato rappresentato in quella che viene comunemente identificata come “storia dell’arte occidentale”, alle implicazioni politiche e sociali di queste rappresentazioni. Trovo necessario mettere in luce la retorica patriarcale che agisce attraverso le immagini per cercare di aggirarla o sovvertirla. Se le iconografie sono polarizzazioni, le citazioni sono ri-polarizzazioni: rovesciano i significati deformando e decontestualizzando i loro involucri. Credo che manipolare le immagini sia un modo per interrogarsi ulteriormente sui meccanismi di rappresentazione e quindi riproduzione del corpo femminile sotto forma di immagine, di creazioni di ideali e di stereotipi.

Tra i riferimenti principali emergono la scultura classica, la pittura di ispirazione esotista, il primitivismo moderno, simbologie. Cosa ti ha portato ad incrociare queste peculiarità nel tuo immaginario femminile?

Cerco di problematizzare l’idea modernista di eclettismo contaminandolo con degli immaginari muliebri. Nei miei ultimi dipinti ho caricato le mie ragazze di connotati storici e stilistici come se fossero degli ornamenti, degli abiti e delle maschere. Tento di elaborare ciò che ha per lungo tempo ha afflitto la caratterizzazione della donna nell’arte visiva: una forma crudelmente iper-femminilizzata di culto dell’apparenza e di vanità.

Dipingi quasi sempre narrazioni fantastiche o ataviche, e la tua forma di racconto è unificata da colori pastello e dettagli ironici. Cosa ti porta a ricercare determinate sensazioni e atmosfere?

In molti miei lavori la scelta di usare colori così marcatamente girly deriva da un desiderio di confrontarmi con un periodo molto fragile e ambiguo della giovinezza, che è quello della pubertà e della pre-adolescenza. Mi interessa di quell’età la proiezione nella fantasticheria e nell’illusione del gioco, ma soprattutto come queste fantasie vengano incanalate attraverso l’insorgere della pulsione erotica. Le mie ragazze sono spesso vittime di uno slancio malsano verso un mondo che pretende da loro una modalità di essere e di apparire come desiderabili e passive. Ma c’è anche un potenziale emancipatorio intrinseco a questo tipo di narrazione, dato proprio dall’ambiguità di questo acerbo desiderio sessuale. Purtroppo nel nostro retaggio culturale il momento dell’insorgere della sessualità femminile è sempre stato guardato con una certa ansia e preoccupazione: le fiabe in particolare ne consegnano la prova più evidente.

Sulle librerie si affacciano diversi volumi sul legame tra femminismo e storia dell’arte, fantascienza, occultismo. Questo tuo interesse letterario influenza il modo in cui approcci i soggetti dei tuoi lavori?

Sì, molto. Mi sono approcciata alla figurazione perché la considero efficace per ricercare una modalità di narrazione fluida che sfumi i contorni delle identità e dei ruoli e che apra il campo delle possibilità di essere, di desiderare e di guardare il mondo. Vorrei per quanto mi sia possibile ricercare aspetti di fluidità e di trasformazione nei miei soggetti per allontanarli da ogni definizione e classificazione specifica. Il disegno è per me un mezzo per complicare e stratificare dei concetti, per renderli ambigui e per provare a sospendere, per così dire, il giudizio. Per questo motivo mi piace leggere molti racconti di sci-fi e fiabe: per cercare modi trasversali di parlare di quelle che ritengo essere urgenze attuali.

In particolare mi hai detto di essere molto affascinata da Leonora Carrington…

Di Leonora Carrington ammiro molti aspetti, primo fra tutti quello biografico: parlo del suo sforzo (comune ad altre artiste sue coetanee come Leonor Fini e Dorothea Tanning) di trasgredire quei parametri fallocentrici che imperavano sulla scena dell’arte europea di inizio Novecento, in particolare surrealista. Dei suoi dipinti, invece, mi piace tantissimo il modo di fondere insieme animalità e “umanità”. Mi sembra che, tra tutta la complessità della pittura di Carrington, ci sia anche un interrogativo implicito sulla natura dei due termini. Sono attratta dalle sue figure: possono esserci familiari solo nella misura in cui riusciamo a coglierne un sottile e sovversivo spirito ironico.

Stai per lasciare questo studio, che si trova sopra quello di tuo nonno, anche lui pittore. Credi che la sua vicinanza abbia influenzato la tua pratica in qualche modo?

Quando ero ancora una liceale andavo a trovarlo una volta alla settimana, e passavamo ore a sfogliare tomi pazzeschi, molti antichi, dalla sua biblioteca. Oltre a cercare di istruirmi sul disegno mio nonno mi ha soprattutto educato a “guardare le figure”, che sembra facile ma non lo è, specialmente adesso. É una pratica che sta cambiando sensibilmente, tanto che evocarne i connotati originali (di meraviglia e stupore) suona quasi anacronistico e nostalgico. A parte questo, credo che migliorare la propria conoscenza estetica e assumere un atteggiamento contemplativo possa sempre affinare una certa forma di “cautela” e di sensibilità nell’utilizzo delle immagini.

Come vorresti che le tue opere venissero guardate? Quando crei i tuoi lavori hai in mente un contesto ideale al quale sono destinati?

Per la personale da TILE Project Space ho pensato a dei lavori che potessero dialogare al meglio con lo spazio, in questo caso ricoperto quasi interamente di piastrelle. Ho progettato allora i dipinti come dei “vestiti” su misura, adattando il formato dei telai e pensando a come si sarebbero sviluppate le immagini. Quando usciranno da lì i pezzi avranno la loro autonomia, ma esposti tutti assieme sono entità che si relazionano fra di loro e con l’ambiente circostante.