Interview #52

Alessandro Agudio

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Alessandro Agudio (Milano, 1982) ha studiato presso la Scuola del Fumetto e all’Accademia di Brera (Milano). Ha esposto il suo lavoro presso Art Berlin Contemporary (Berlino); 1m3 (Losanna); Fluxia, GAM, Gasconade, Marsèlleria, Plusdesign Gallery e La Triennale di Milano (Milano); American Medium e Grand Century, (New York); Galerie Chez Valentin (Parigi); Galleria Vistamare – Benedetta Spalletti (Pescara).

Il tuo percorso formativo si alterna tra graffiti, la Scuola del Fumetto e l’Accademia di Brera. Come hai vissuto le due diverse esperienze?

Avevo quattordici anni (facevo il primo anno di ragioneria) quando ho iniziato a fare graffiti grazie a Marco, un amico poco più grande di me che iniziò a dipingere il garage del padre, all’interno del palazzo dove abitavo. Grazie a lui l’anno dopo m’iscrissi all’istituto d’arte! Penso sia stata un’esperienza importante soprattutto dal punto di vista ‘atmosferico’, tanta passione e tanta adrenalina legati alla città in cui vivi… e poi una bella parte di questa pratica si svolgeva la sera fino a tarda notte, spesso con il gruppo di amici della krew e le emozioni erano tante. Passava il tempo e arrivò il momento in cui sentii di aver esaurito quel sentimento che per circa una decina di anni aveva mosso tanta gioia: lavoravo come bagnino nei fitness club ma continuavo a disegnare tanto, m’inventai anche una pittura con spray su pannelli di polistirolo (imbarazzanti) così decisi di iscrivermi alla scuola serale del fumetto a Milano e questa fu l’esperienza che mi fece decidere per l’accademia. Avevo venticinque anni e avevo capito che volevo fare l’artista.

E pensi che graffiti, fumetti e fitness club abbiano influenzato la tua estetica?

Mi sono accorto di aver assorbito molto l’estetica da fitness club, ma non mi riferisco alle grandi società tipo Virgin: penso agli interni dei club ad esempio, a conduzione familiare, dove spesso i proprietari sfoggiano una certa idea di buon gusto e un tipo di eleganza standardizzata… di cui ho una grande passione.

Le tue sculture sono assemblaggi di diversi elementi, artificiali e organici, concavi e convessi, che si sviluppano però sempre secondo logiche bidimensionali, come mai?

Quando penso ad una scultura la visualizzo come un’immagine, subito dopo capisco che devo occuparmi di risolverla tridimensionalmente. Forse alcuni dei miei lavori sono la soluzione tridimensionale di immagini, le immagini le sento più ‘taglienti’: si tratta di superfici, mi affascina quando una superficie inganna ad esempio la percezione del peso di un oggetto. Mi occupo della ‘facciata’ di una cosa e questo mi permette di mantenere una certa condizione sentimentale mentre penso al lavoro che sto facendo.

Spesso questi totem, fatti di forme rigorose e colori tenui, sono completati da oggetti di vita quotidiana, come tessuti, piante, amplificatori, liquidi alimentari. Da cosa sono dettate queste scelte?

Questo è un gioco, non voglio fare troppo sul serio…non mi interessa la sofisticazione, dietro al lavoro c’è sempre un personaggio teso a fare del proprio meglio, non è un professionista ma un dilettante che soffre di ansie da prestazione. Ecco, i miei lavori soffrono una certa ansia da prestazione e i vari elementi in più, come ad esempio gli amplificatori trovo che possano essere il valore aggiunto che chiamerei comfort oppure optional che lo caricano di valore appunto.

A giudicare dai titoli narrativi delle tue opere, la pratica della scrittura ti interessa da vicino, e si mescola con le tue produzioni…

Ho avuto un periodo dove scrivevo molto e producevo davvero poco, diversi titoli dei lavori sono presi dai brevi racconti che scrivevo come Il giornale impermeabile, Una delle più famose astronavi di legno lungo una spiaggia brasiliana. Ho intenzione di riprendere a scrivere; per me fare un oggetto da mettere in mostra vuol dire creare una forma ‘vuota’ buona per la ‘messa in scena’ e devo ammettere che ho perso un po’ di entusiasmo nel produrre queste ‘baraccate’.

In diverse occasioni hai incluso l’elemento sonoro nelle tue opere, collaborando, tra gli altri, con Beatrice Marchi e i Primitive Art; come pensi che questo cambi il modo in cui lo spettatore si avvicina alle tue installazioni?

Come ti dicevo prima, gli amplificatori inseriti in un oggetto e quindi la musica li penso come un valore aggiunto (come una macchina con interni full optional) che può attrarre lo spettatore e scalda l’ambiente creando l’atmosfera che cerco di veicolare con il pezzo che insieme ai musicisti si costruisce.

Nei tuoi anni milanesi ti è capitato di confrontarti con altri artisti o realtà locali?

Si! Ed è stato bellissimo, spero di vivere ancora esperienze del genere, più si vai avanti e più c’è il rischio di trovarsi soli e di non avere qualcuno con cui confrontarsi con la passione e la sincerità necessarie. Ho vissuto un periodo intenso con Motel Lucie, con Derek Di Fabio, poi ho vissuto in via Davanzati con Davide Stucchi, Anna Mostosi e Beatrice Marchi (di cui sono anche innamorato!) e in quel periodo meraviglioso ha aperto Gasconade. Ho conosciuto Michele D’Aurizio che rimane tutt’ora una figura molto importante con la quale confrontarmi ogni volta che porto avanti una nuova produzione.