Interview #53

Margherita Raso

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).
* Attualmente, Margherita Raso è di base a New York.

Margherita Raso (Lecco,1991) ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Dal 2014 è co-founder dell’artist-run space Armada, Milano. Ha esposto il suo lavoro presso Fanta Spazio; Armada (Milano); St. James, Menaggio (Como); A+A Gallery (Venezia); Komplot (Bruxelles); Dowd Gallery; Bible (New York).

Vorrei cominciare con una frase che mi hai fatto leggere, secondo cui la supposta ‘minorità’ delle cosiddette ‘arti minori’ va letta nell’attenzione che pongono a sensi ormai considerati secondari nella nostra cultura prevalentemente visiva. Questa idea racchiude un senso di alcune scelte ed esigenze del tuo lavoro…

Christian Metz parlando del profumo nel testo The Imaginary Signifier scrive: “…Any socially acceptable art that depends on the senses of contact is a minor art.” Il dibattito circa le cosiddette ‘arti minori’ e ‘arti maggiori’ è così denso e articolato da non poter essere indagato a fondo in questo spazio. Tentare di riassumerlo risulterebbe poco interessante. Le categorie di ‘minore’ e ‘maggiore’ le comprendo e le rispetto come forma di speculazione e di indagine, ma tali ‘divisioni’ (sul tema in questione) costituiscono distrazioni per la testa, che cerco invece di mantenere libera da deduzioni. Quello che mi interessa davvero di ciò che convenzionalmente è ‘minore’, sono gli aspetti effimeri ed elusivi che lo caratterizzano. In generale penso che l’opera esista sempre nella dimensione visiva tanto quanto nel là dove gli occhi non arrivano, un ‘luogo’ che riguarda la mente e il cuore, quanto i polpastrelli e la lingua. È in questo contesto che indago le qualità aptiche (otticamente tattili) di un’immagine e come queste si manifestano nella dialettica fra tatto e vista – come una tensione interna all’esperienza dello spazio.

E un’esperienza aptica è desiderata anche nella fruizione dello spettatore?

Non cerco di direzionare chi guarda verso un’esperienza aptica del lavoro. Sarebbe un’operazione estremamente riduttiva. La fruizione è per me un momento ‘libero’ e aperto che contiene almeno un migliaio di possibili storie. Con questo non parlo di ambiguità, ma di intenti.

La dimensione sinestetica è ricercata anche in fase di produzione?

Intendo la dimensione sinestetica come un fenomeno percettivo involontario, quindi non lo cerco. Per me è legata alla capacità di percepire o di prestare attenzione, quindi non è mai stabile.
Ad esempio, nella serie di incisioni che ho realizzato tra il 2013 e il 2014, periodo in cui condividevo lo studio con alcuni musicisti, ho sfruttato gli stimoli ambientali per creare segni legati al ritmo e al timbro musicali. In quel contesto, ho esplorato la distrazione come dispositivo di apertura e forma di conoscenza. In generale mi interessa mantenere un approccio ‘distratto’, direi sincretico verso la realtà che si concretizza nell’interesse di codici provenienti da culture vicine e lontane, appartenenti alla contemporaneità e al passato, così come alla cultura aulica e a quella di strada. Cercare concordanze tra elementi disparati o, tra le differenze, cercarne le similarità.

In un lavoro che come il tuo necessita di molta progettazione, è facile mantenere un rapporto intimo, affettivo, con la materia, o non ne senti il bisogno e al contrario, senti necessario distaccartene?

La realizzazione del lavoro è per me una forma d’insediamento – disarmato e silenzioso – che a tratti assume le forme di una danza, a tratti di una lotta. Nello studio e nella relazione con i materiali si crea un’intimità tattile che abbandono non appena lo ritengo necessario. Nel rapporto con il lavoro penso la dimensione fisica-corporea come costituita da un dentro e da un fuori che prende forma grazie al limite della pelle.

Lavorare con tecnici specializzati, invece, mi permette di avere un continuo scambio di informazioni e conoscenze finalizzate a ottenere quello che desidero, quindi la realizzazione ‘esattamente come la voglio’ avviene già. Non riesco a immaginare cosa cambierebbe, sarebbe semplicemente un’altra cosa.

Gertrud Arndt, di cui conosciamo i tappeti, non ha potuto studiare architettura alla scuola della Bauhaus: fu indirizzata verso la tessitura in quanto disciplina considerata femminile. Ti interessa un approccio ibrido, diciamo queer, all’utilizzo di tecniche e materiali? Ancora oggi molte discipline sono estremamente distinte in base al genere…

Credo che il lavoro si riveli anche attraverso la natura fisica ed emotiva del materiale di cui è fatto, ma questo non mi porta a decidere a priori quale tipo di approccio avere, rispetto ad una particolare tecnica o materiale.
Nel mio lavoro l’utilizzo della ceramica, ma in particolar modo del tessuto, materiali facilmente decodificabili come femminili, mi ha portato a confrontarmi con la reciproca esclusività che assumono le tecniche artistiche quando distinte in base al genere. Ma poi mi sono resa conto che la questione non mi riguarda. Con l’utilizzo di questi materiali non desidero parlare di gender e nemmeno celebrare una certa ‘tradizione artigianale’, che sia di tipo femminile o meno. Detto ciò sono cosciente del ventaglio di risposte emotive che creano determinate scelte formali.

Cos’hai bisogno di avere attorno quando lavori? Che stimoli, che tipo di ambiente?

Silenzio o molta musica. Adoro avere vicino il cane e il gatto. A volte litigano moltissimo.