Interview #11

Alice Ronchi

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Alice Ronchi (Ponte dell’Olio, 1989) ha studiato presso la NABA (Milano) ed il Sandberg Instituut (Amsterdam). Il suo lavoro è stato esposto presso Galerie Fons Welters (Amsterdam); Hawaii-Lisbon (Lisbon); MAMbo (Bologna); Art Géneve (Ginevra); Narrative Project Gallery (Londra); Nir Altman Galerie (Monaco); Francesca Minini, MEGA, Gasconade, Palazzo Reale e Peep-Hole (Milano); MACRO (Roma); CO2 e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino); Galleria Civica di Trento (Trento); Galerie Mark Müller (Zurigo).

Il tuo lavoro è molto sfaccettato per materiali e temi, ma il suo comune denominatore è il concetto di paesaggio e di infanzia; quest’ultimo inteso come processo cognitivo fatto di osservazione e percezione…

Si, lo definirei ‘un modo di osservare le cose’, qualcosa che i bambini fanno in maniera del tutto naturale ed istintiva, giocandoci. Essi non ne conoscono i significati o la loro funzione, così il loro modo di relazionarsi è molto differente dal nostro, estremamente curioso e visionario. È come se la realtà e la fantasia si incontrassero, ed è proprio qui che vorrei collocare il mio lavoro, in un luogo dove il ‘tutto è possibile’ della fantasia si applica alla realtà rivelando il suo essere potenzialmente magica. Per questo spesso trasformo le cose mantenendo riconoscibile il loro primo aspetto, per svelare questo meccanismo di visone, che non stravolge la realtà ma la amplifica, mostrandone una possibilità.

A questo proposito vorrei chiederti di uno dei tuoi primissimi lavori, una performance dedicata alla pioggia, che ti ha aiutato a capire meglio qual’era la direzione del tuo lavoro.

30 persone, 30 barattoli di lacca per capelli e bombolette spray ripetutamente aperte e chiuse, una follia collettiva. In pochi istanti però, sui loro volti scettici apparve un sorriso; quel rumore si trasformò nel suono della pioggia. Da quel momento si impresse nella mia mente che le cose si possono trasformare. Ma più importante, si impresse il motivo per cui valeva la pena trasformarle: quel sorriso.

Oltre al tema della meraviglia uno dei tuoi punti saldi è il rapporto con tecniche e materiali, la “chicchera con la materia”. Che cosa ti attira di questo aspetto della lavorazione di ceramica, vetro, plastica?

Come con ogni altro materiale sono le loro proprietà specifiche che mi attraggono e mi intrattengono, è fantastico scoprire per esempio in quante cose il vetro possa trasformarsi, o meglio quante storie esso possa raccontare, dalla sua forma più liquida e organica a quella più geometrica e solida, da una medusa ad un tavolo. Penso che la sfida sia motivare quella storia, il perché si è scelto di utilizzare un materiale invece di un altro, rendendo unico e sincero il dialogo tra forma e contenuto.

Dici che hai più idee che lavori finiti, forse perché spesso trai ispirazione da elementi quotidiani e questo comporta una continua stimolazione alla quale è difficile tenere testa: al contempo molte delle tue opere presuppongono lunghi tempi di lavorazione. Come riesci a raggiungere un soddisfacente equilibrio tra il ritmo di ideazione e quello di creazione?

Accettando questa condizione e smettendo di combatterla; non sempre ne esco vittoriosa ma faccio del mio meglio. Lavoro intensamente.

Nel tuo archivio, oltre ad un sacco di faldoni divisi per ricerche e progetti, ci sono anche due libri di tua creazione: di che cosa trattano?

Il primo è un trattato che analizza il paesaggio nella sua forma e definizione naturale e la trasforma in una pratica di disposizione degli oggetti nello spazio, si intitola Landscape Method. Il secondo invece, Explorers, racconta cosa accade quando ci si addentra il quel paesaggio da noi creato, focalizzandosi sull’emozione dell’incontro e sull’interazione.

Un’altra produzione editoriale è stato il libro legato alla tua partecipazione ad Artline nel 2015, Summer Reunion. Qui hai sviluppato un’opera sul playground, tuo tema di riferimento…

Il tema del playground è per me è così importante e presente in ogni cosa, dall’aspetto sociologico alla ricerca sul paesaggio – inteso come sistema di relazioni (grazie ad esso iniziata), persino il suo formalismo mi influenza… che non saprei neanche da che parte iniziare a raccontarlo, così ti dico solo che ammiro intensamente chi progetta quell’insieme complesso di strutture felici.

Mi hai detto di essere molto vicina al pensiero di Munari, che per te è fonte di ispirazione. Che cosa, più nello specifico, ti interessa della sua eredità?

Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare.“

Un’altra grande mente che ti è caro è Richard Buckminster Fuller, che hai citato nella tua mostra a Gasconade nel 2013. Come andò quell’esperienza?

Benissimo. Gasconde non è stata solo una piattaforma espositiva ma un insieme di persone che interagivano con un unico obbiettivo: comunicare e raccontare un preciso momento di Milano. Riguardo a Fuller, rimasi affascinata dal suo pensiero e dal suo carattere visionario; nel suo libro Operating manual for spaceship earth esclama “siamo tutti astronauti” in quanto abitiamo su un pianeta in movimento nell’universo, trasformando così la terra in una navicella spaziale, straordinario! Ho pensato: se noi curiosi andiamo ad esplorare altri pianeti anche gli altri pianeti con i loro astronauti vorranno visitare noi, da li è nata la serie We are all astronauts, una famiglia di sculture ‘aliene’ che di tanto in tanto vengono a farci visita.