Interview #19

Dario Bitto

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Dario Bitto (Messina, 1989) ha studiato all’Accademia di Brera (Milano). Il suo lavoro è stato esposto presso TILE Project Space e Fabbrica del Vapore (Milano).

Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza”: una frase di Gramsci che apre il tuo portfolio. Perché è importante per il tuo lavoro?

È l’immagine bianconero di un testo riportato su un cartellone. Non è la sua connotazione sociale, benché successivamente si proietti nel mio lavoro, che lo porta a essere il frontespizio della mia pratica; ma la potenza della forma testo. La foto riporta un cortocircuito interno che per me è stato rivelatorio; poiché caratterizza la lotta tra testo e immagine, dietro la quale si cela una battaglia della coscienza storica contro la magia; proprio perché i testi non presentano il mondo: ma rappresentano le immagini. Qui l’istruzione è considerata come indispensabile forma di presenza, ma non tratta la metodologia con la quale viene iniettata. Questa, invece, è la zona dentro la quale si costruiscono i miei apparati. Le formule d’influenza che subisce l’istruzione non sono ponderate; ma sono esse a concatenare le metodologie, e se ci fossero delle mappature decennali, si potrebbe capire cosa facciamo adesso e a causa di chi. Inoltre Gramsci sottolinea un paradosso già virale nelle strutture sociali ed eredità di un periodo a egli anteposto e contrario. L’intelligenza a cui accenna la frase è qui da elemento biologico a estremo rimedio di un processo didattico. Egli non dice “Istruitevi perché avremo bisogno della vostra cultura”, concetto altero nelle società occidentali, ma della vostra intelligenza. Sottolineando come attraverso i processi didattici si può costruire una cultura dell’intelligere, non come strumento di identità ma di restituzione. L’intelligenza insignisce le chiavi critiche perché non si può insegnare.

Come emerge, tematicamente e metodologicamente, la dialettica sparizione-affermazione dell’ego, nella tua ricerca?

Il mio lavoro si struttura sulle analogie e le ricorrenze delle fonti, per cui riconoscere la loro natura è indispensabile. Questa dicotomia diventa così il mio metro di giudizio. Costituendosi, senza premeditazione di scelta, in due vie differenti che le accetta come strategiche – gli atti di sparizione – o tautologiche – le imposizioni della presenza. Nel primo caso fanno riferimento i parametri autoriali dietro i quali si celano i processi autonomi di potere e lo scontro con altri già proclamati. Affinché la traccia dell’autore possa stare solo nella singolarità della sua assenza. Dal secondo caso si evince l’asserzione che ogni presenza è tale solo perché riconoscibile.

In che progetti collaborativi ha preso forma questo interesse?

Nel 2015 ho iniziato un progetto che prevede una lunga durata che si chiama Genizah. Sarà un film in tredici capitoli ognuno dei quali scritto in relazione al confronto (o durante) con altri artisti. Il soggetto del film è l’analisi dell’hybris nell’affermazione dell’ego personale, nella speculazione e presenza artistica. Si prendono in considerazione elementi tautologici – di affermazione – che taluni artisti hanno deviato sul loro lavoro e su se stessi, narrandone le risultanti. D’altra parte ho scelto di dialogare con artisti che fanno da contraltare, nel concernere le strategie di sparizione attivate da se stessi su se stessi. C’è da dire che questo discorso, però, si diluisce su tutta la mia pratica, sfociando in una forma di scrittura aperta dei dispositivi.

Sapresti tracciare un’origine di questo tuo interesse verso le possibilità metodologiche di approccio al lavoro artistico? C’entra qualcosa il tuo passato come assistente per artisti?

L’interesse si è mosso partendo dalla fascinazione per il cinema e le sue basi. I linguaggi e i metodi che questo subisce in relazione alle tecnologie, ma soprattutto agli sguardi. Ed è proprio questo il caso di considerarli tali. Soprattutto le fasi del montaggio e della sua scrittura hanno accelerato il corso delle mie considerazioni. La simmetria, però, con il mio lavoro è lodevolmente casuale. Lavorando, appunto, con alcuni artisti sia in studio sia in galleria, ho potuto commisurare degli aspetti che hanno, adesso, sedimentato in fasi personali di lavoro. Anche se studiarli e vederli lavorare è stato, almeno inizialmente, un esercizio di dura sopravvivenza alle gerarchie sociali e naturali in questo percorso.

La scrittura come elemento che guida il tuo lavoro, senza necessariamente emergere come output testuale, ma in quanto vettore, è presente anche in un altro ciclo, Percorsi e Intenti: Marra (2015) questa volta come ‘pretesto’ per un’indagine iconografica. Me ne parli?

Ancor più che la scrittura è la pratica della sceneggiatura che indirizza gli espedienti nel mio lavoro, che si tiene in stretta relazione con il soggetto dei progetti; mutandosi di volta in volta. Nel caso di Percorsi e Intenti: Marra (2015) questo processo ha preso spunti precisi che agli screenplays per una serie cinematografica. Il testo vive, così, un forte influsso dettato dagli anniversari e dalle ricorrenze, proprie anche del progetto, avvalendosi dell’aggiornamento di narrazioni come se fosse pronta per esporsi. Questa cadenza mi porta talvolta a dati di accumulo tenuti insieme dalla scrittura stessa; per giungere a un prototipo di film (nell’esplorazione testuale), che non sarà mai girato, ma con oggetti di scena già predisposti. Questi ultimi attivano il valore identitario del progetto stesso.