Interview #4

Diego Marcon

* Il testo che segue è l’edit di un’intervista del 2016. La versione integrale è stata pubblicata in PANORAMA (DIORAMA editions).

Diego Marcon (Busto Arsizio, 1985) ha studiato presso lo IUAV (Venezia) e la Scuola Civica di Cinema, Televisione e Nuovi Media di Milano (Milano). Ha esposto il suo lavoro presso Artspace (Auckland); Catalyst Arts (Belfast); Museion (Bolzano); ODD (Bucarest); Museo Villa Croce (Genova); Pornanteau (Ginevra); Whitechapel Gallery (Londra); Matadero (Madrid); Careof, Gasconade, PAC e Peep-Hole (Milano); MACRO e Palazzo delle Esposizioni (Roma); IFFR (Rotterdam); OCAT (Shanghai); Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino); Centre international d’art et du paysage (Vassivière).

Dopo aver completato la tua formazione a Venezia e aver vissuto per due anni a Parigi, nel 2015 sei tornato a Milano come primo artista in residenza del progetto Performing Archive di Careof. Com’è andata questa esperienza?

Sono arrivato a Milano contento di tornare a viverci, di lasciare Parigi. Performing Archive è un progetto che Martina Angelotti ha avviato in occasione della mia residenza e inizialmente molti aspetti del programma non erano ancora stati definiti. Questo ci ha permesso di progettare con cura la mostra e di tarare la residenza sulle esigenze dei lavori prodotti e della mostra stessa. Durante i mesi a Careof ho poi realizzato una serie di film che cristallizzano alcuni pensieri che attraversano il mio lavoro da tempo.

Questi lavori sono frutto di un processo che li separa abbastanza nettamente dalle tue modalità di produzione precedenti.

All’epoca ho cominciato a prendere le distanze da un processo di produzione che mi era più familiare, a favore di altre modalità di carattere sperimentale. Tra queste, la serie di film Untitled (Head falling), cinque animazioni dipinte e grattate su pellicola 16mm.

In che cosa si distanziano dal tuo approccio precedente?

Non m’interessa prendere le distanze da un approccio specifico, ma abbandonare un processo familiare, collaudato, in qualche modo sicuro, e procedere per intuizione e osservazione, per tentativi, attraverso un confronto diretto con il mestiere e la materia.

Avevi già esposto il tuo lavoro a Milano, in una personale da Gasconade nel 2013: com’è stato interagire con quella realtà?

Gasconade ha segnato il nuovo inizio del mio innamoramento per Milano, in qualche modo ha cambiato il mio sguardo sulla città. Durante i giorni di lavoro e di allestimento ho imparato ad amare alcuni aspetti di Milano e a posare i miei occhi su dei luoghi su cui non si erano dapprima soffermati. Milano è una città dalla bellezza discreta; si profila attraverso angoli, scorci, androni, finiture… Ognuno di questi dettagli la rende una città meravigliosa, austera. Milano non è una città contemporanea, è una città moderna – nel senso di modernista; è il suo continuo sferragliare, è il lavorio che ne da forma e che procede concentrato e rigoroso. È una città ricca di passato recente, ha un’identità forte e allo stesso tempo lisa, stinta. Se ci si accorge di questa sua attitudine discreta non si può che prendersene cura. Credo che la ‘cura’, intesa in quest’accezione, sia una delle cose più belle e importanti cui ha dato forma Gasconade.

In passato hai spesso operato usando il luogo in cui ti trovavi come punto di partenza: sia per ricerca personale sia in esperienze di residenza radicali come quelle di Île de Vassiviére e Perarolo. Che differenza c’è per te nel metabolizzare un contesto scelto e uno assegnato?

Non metabolizzo mai i luoghi, significherebbe diventarne impermeabile. Chi pensa che la felicità si trovi a New York e l’amore a Mosca è chi trascina la propria tristezza a New York e il proprio odio a Mosca. “A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono”. Attraverso i miei lavori tento di avvicinarmi ai luoghi come alle cose, ma un punto di contatto e svelamento è negato a priori.

Nel tempo hai lavorato più volte con Anna Franceschini e Federico Chiari, come sono nate e si sono sviluppate queste collaborazioni?

Entrambi sono amici da lungo tempo. Ho incontrato Anna durante gli anni della Scuola di Cinema. Abbiamo da subito instaurato un’amicizia intensa e radicale: fino a quando abbiamo vissuto nella stessa città, il nostro rapporto è stato il luogo di un continuo di idee e di progetti. Conosco Federico dai tempi del liceo, già allora produceva musica. Ha curato la parte sonora di ogni mio lavoro e insieme abbiamo fondato il progetto DANCEHOLE Records. Al di là delle collaborazioni, Federico si occupa principalmente di suono e ha uno sguardo piuttosto critico rispetto all’arte contemporanea. Questo rende possibile un confronto sul lavoro che forse non potrei avere con un altro artista visivo. Entrambe restano due delle persone con cui ho i confronti più intensi e cruciali e, allo stesso tempo, due delle ricerche che più stimo.

A Milano ci sono altre persone, artisti e non, con le quali hai avuto occasione di interagire o delle quali segui il lavoro?

Ho ripetute interazioni con una serie di figure del terziario.